Costituzione e Convenzione di Faro. Il diavolo in corpo che non c’è

CULTURA

Un mese dopo il Referendum i Comitati del Sì e del No dicevano di voler continuare a rimanere aperti. Il professor Beppe Vacca presidente del comitato del sì del Lazio e docente “storico” dell’ateneo barese esprimeva l’opportunità di dialogare per ascoltare le ragioni del No e operare dal basso per una specie di costituente di popolo. Quelli del No, con il pugliese Enzo Lavarra, per vigilare sul rispetto della Costituzione. Ora, però, con la riunione di Roma promossa da D’Alema quei propositi sembrano lontani e si lancia un movimento per un nuovo Centrosinistra.

A fine del 2015 da una indagine accurata risultava che solo il 15% aveva letto la Costituzione, il 29% diceva di averla sfogliata, il 51% non sapeva cosa fosse. Il Referendum ha avuto il merito di colmare questo vuoto di conoscenza e di mettere al centro del dibattito il documento fondativo della Repubblica, che, dicevano in molti, doveva essere il punto di riferimento della vita pubblica, compagna di viaggio della nostra cittadinanza.

Piero Calamandrei nei primi anni Cinquanta profuse molte energie per rendere la Costituzione patrimonio comune, e invitava a verificarne l’attualità a partire da alcuni articoli. Per lui l’articolo più importante è il terzo, quello che attribuisce alla Repubblica il compito di “rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che… impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del paese”. Un articolo che offre la possibilità di operare analisi sociali e politiche niente affatto scontate sulla effettiva uguaglianza dei cittadini e quindi misurare i ritardi, le inadempienze, le responsabilità. E chiamare in causa non solo lo Stato, ma anche le autonomie locali: Regioni, Comuni…

Altro articolo importante è il nono: “la Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica. Tutela il paesaggio e il patrimonio artistico della nazione”. Sono quelli oggi chiamati Beni comuni, perché appartengono a tutti, nessuno può essere escluso dal godimento. “Devono essere amministrati muovendo dal principio della solidarietà. Incorporano la dimensione del futuro, e quindi devono essere governati anche nell’interesse delle generazioni che verranno” (Rodotà). Una lettura oggi resa più attuale dalla Convenzione europea di Faro (la località portoghese dove è stata firmata). Un documento che stabilisce il concetto di eredità del Patrimonio culturale: “un insieme di risorse ereditate dal passato che le popolazioni identificano, indipendentemente da chi ne detiene la proprietà, come riflesso dei loro valori, credenze, conoscenze e tradizioni in continua evoluzione”.

Il testo elaborato a Faro ha come punto di riferimento la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo  (Parigi 1948) e stabilisce il diritto al patrimonio culturale come diritto dell’individuo a partecipare alla vita culturale della comunità. L’attenzione si sposta dalle cose alle persone, che insieme attribuiscono “valore ad aspetti specifici dell’eredità culturale” e che desiderano, nel quadro di un’azione pubblica, trasmetterli alle generazioni future.

La Costituzione non è immobile, non mette il punto, apre invece le vie all’avvenire. Una costituzione progressiva, rinnovatrice, mira trasformare la società. Ma perché viva bisogna alimentarla, con la passione, l’energia vitale; insomma metterci, diceva Calamandrei, “il diavolo in corpo”. Non ogni tanto, non per il referendum, ma giorno per giorno. Non con le conferenze degli esperti, ma nel lavoro quotidiano. I cittadini hanno il diritto – dovere di giudicare e sorvegliare, vivere la cittadinanza e la democrazia con atti consapevoli e creativi. Non si può parlare solo di diritti. Dobbiamo ripensare la nostra cittadinanza in termini di diritti e doveri collettivi e porli al centro del discorso sulla città, perché necessari ed essenziali per il benessere della comunità.

 

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