La povertà dei bambini. Non si può dire :”è colpa loro”

SOCIALE

E’ una povertà che non può essere spiegata con elementi soggettivi e comportamentali. Non si può dire “è colpa loro”. Gli indicatori economici da soli non dicono che cosa significhi essere poveri da bambini, né le indagini riportano i loro desideri, le loro aspettative, le umiliazioni che avvertono. Gli studi intervistano adulti che ci dicono come vedono le esperienze dei bambini, ma non ci raccontano le esperienze “vere e proprie” dei bambini. Eppure sono capaci di esprimersi e raccontare, ed è certo che essi registrano tutto, non dimenticano niente e le conseguenze sono profonde e durature.

Conta l’origine familiare. Quali possono essere gli elementi per misurare la povertà? Non avere la cameretta, non andare in vacanza, non avere un computer, non un luogo dove potere studiare, non avere i libri scolastici... Si è poveri quando ci si vergogna della casa e non si ricevono amici per fare i compiti, perché non vi è lo spazio adeguato o perché “il cattivo odore della cucina si mantiene per ore”. O la casa è piccola per cui “torna mio padre da lavoro e deve riposare”, “sta mia madre e mia sorella e vedono la televisione”.

Ci sono forme di deprivazione materiale: non fare un pasto proteico una volta al giorno (e aumenta l’obesità) o non potere avere vestiti nuovi (il riuso è una roba da adulti e intellettuali benestanti). Una madre chiedeva cento euro perché doveva comprare un abito firmato: “Mia figlia viene allontanata dalle amiche perché non veste bene”. Parliamo di scuola media. E poi ho visto quella donna a Siponto vendere fichi d’India. Importanti sono anche le forme di deprivazione relazionale: non festeggiare compleanni, non partecipare a eventi scolastici (gite). Essere bambini poveri è oggi molto più difficile che essere adulti poveri. I bambini sanno vedere e giudicare e fanno le loro rinunce; ma non sempre riescono a nascondere la tristezza e il timore, quando intuiscono che le differenze economiche possono mettere a rischio le relazioni e la partecipazione sociale.

Il disagio dei minori, dovuto alla deprivazione economica, si proietta nelle opportunità educative e questo genera un forte divario “nelle competenze cognitive tra i ragazzi, secondo la classe sociale e la residenza geografica(Chiara Saraceno). Gli sforzi della scuola ci sono, ma resta alta la dispersione scolastica, specie dopo i 14 anni. La sola povertà economica nell’infanzia non impedisce per lo più ai bambini di sviluppare attitudini ed aspirazioni, nell’adolescenza è diverso e questi ragazzi corrono rischi molto forti di essere e sentirsi ai margini e di assumere comportamenti devianti. Alta è la percentuale di quindicenni che dicono di aspirare a lavori con bassa qualifica. Manca un piano permanente e flessibile sulla bassa frequenza dopo la licenza media, soprattutto dei minori stranieri. Ci sono bambini e ragazzi stranieri in alcuni “ghetti” nel Tavoliere, ma anche tanti sono quelli che vivono nei casolari sparsi del Tavoliere. Molti non vanno a scuola. Non si sa nemmeno quanti sono e di cosa hanno bisogno.

Nel 1984 Ermanno Gorrieri (presidente della prima commissione di indagine sulla povertà) segnalava che in Italia la povertà aveva una doppia caratteristica: era concentrata nel Mezzogiorno e colpiva eminentemente le famiglie numerose; l’assenza di reddito minimo e il carico familiare di cura rendeva difficile alle donne madri conciliare responsabilità domestiche e partecipazione al mercato del lavoro. Una situazione che resta sempre particolarmente grave nel Sud. Un bambino che nasce nel Sud ha un rischio molto più alto di vivere nel corso della sua infanzia e adolescenza in povertà rispetto a un coetaneo che nasce nel centro Nord.

 

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