La guerra alle parole. Impoverite e violentate. La lezione di Dante e di Anna Achmatova
Il mondo diviene sempre più complesso, complicato, incomprensibile… e noi svuotiamo e oltraggiamo le parole. Sembra che si sia spezzato il patto tra le parole e le cose.
La parola è usata in modo improprio, trascurato, più sfogo personale ed emotivo, che per dire e stabilire relazioni. Eppure la parola “comunicare” è composta da cum e munus, fare dono, farsi reciprocamente dono. Il bene più prezioso che abbiamo, più intimo, nobile. La lingua è l’elemento più evidente per stabilire che lì c’è una comunità. Una creazione complessa e misteriosa. Parliamo greco (pandemia, politica, crisi..) e latino (virus, repubblica, morale…). La parola è un pharmakon, rimedio e veleno. Ci salva e ci condanna. Ci mette insieme e ci isola. Fa scoppiare le guerre e può costruire la pace (Dionigi).
Cercare il significato delle parole non è più un atto compiuto dai parlanti e scriventi. Quanti oggi consultano il vocabolario? Quanti studenti lo acquistano? “Tanto c’è Internet!”. A Monte S. Angelo incontrai uno studente che “leggeva” il Dizionario! Ne era affascinato, stabiliva così un legame tra le parole del dialetto e l’italiano.
Giorni fa un giovane edicolante raccontava di due donne in attesa dell’autobus che si davano appuntamento con crà e piscrà. “Ma che dialetto è questo?” Si meravigliò venendo a sapere l’origine latina “cras, post cras”. Una forma per indicare domani e dopodomani in uso nei paesi montani garganici. Davanti all’edicola si è continuato a parlare di altre parole, le differenze tra ieri e oggi, l’origine, i segni di contatto con altre lingue. Un argomento che affascina sempre tutti.
I contadini che frequentavano le scuole serali (o quelli delle 150 ore) si emozionavano quando scoprivano il senso delle parole. Come si trascrivevano, cambiavano, si alteravano… Le parole dei proverbi, dell’insulto, dei luoghi… Si impegnavano a fare i conti, perché servivano. Ma lo studio delle parole era diverso, coinvolgeva. La poesia e il teatro in dialetto sono sempre amati, ovunque. Una frequentazione utile per riflettere sulle parole.
Dante è il padre della lingua italiana, le parole che usiamo sono ancora oggi per il 70 – 80% quelle usate da Dante, che a sua volta ha usato le parole di altri, del volgo, dei predicatori popolari, di novelle, apologhi e facezie. La parola si inserisce in una dimensione storica e sociale. Dante nella sua ricerca del volgare illustre in Italia (nel De vulgari eloquentia individua 14 volgari prevalenti) si sofferma anche sulla lingua degli Apuli (“turpiter barbarizant”” – parlano male). Riporta l’esempio “Volzera che chiangesse lo quatraro” (voleva che il bambino piangesse). Una espressione di Monte S. Angelo, dove ancora oggi si può sentire dalle persone anziane: “lo quatraro sta chiangenno”.
L’incuria delle parole e l’uso politico del linguaggio sono la causa principali della volgarità di questi tempi. Si parla solo ai propri fans, per rinvigorirli nelle convinzioni e non per comunicare idee, nel clima polarizzato e schematico in cui siamo precipitati. Non coltiviamo più l’arte della traduzione… Che dire dei corrispondenti da Cina, Russia, Ucraina, Africa… che conoscono solo l’inglese! Si avverte il bisogno di una ecologia della parola che dia a termini, aggettivi, verbi il potere di illuminare e non nascondere la realtà, di aiutare a leggere il mondo senza pregiudizi, rancori…
Quanto, nella mentalità russa, il senso di frustrazione e umiliazione è cresciuto con il trattamento riservato alla loro lingua nei Paesi ex sovietici? Nei quali era ed è parlata da una parte consistente della popolazione. Vi è stata giustamente l’affermazione di nuove lingue ufficiali, con la marcata emarginazione del russo. In Lettonia i russofili per partecipare al voto dovevano sostenere un esame nella lingua ufficiale lettone. Quelli che non non lo superavano e non si presentavano erano dichiarati non cittadini, apolidi in patria. Nel silenzio dell’Onu e dell’Unione europea.
I russi hanno un amore sconfinato per la loro lingua. Valgono i versi di Anna Achmatova, poetessa nata ad Odessa. “… L’ora del coraggio –- è suonata sul nostro orologio — e per noi non passerà mai più. — Non ci spaventa cadere sotto il piombo, restare senza tetto: — noi salveremo la russa favella, — l’altissimo verbo russo. // Lo porteremo puro e libero — ai nipoti: mai sarà prigioniero, mai più.”