Yes i can. Che cosa ci lasciano i giochi paraolimpici.
Yes i can è lo spot inglese, bello e divertente. Si può ascoltare sul web. I giochi paralimpici sono stati giochi veri per la passione, i risultati, lo spettacolo. Persone che sono state aiutate dalla tecnologia, ma che trovano in se stessi la forza per raggiungere risultati importanti. Aumentano gli atleti e i paesi partecipanti. A Rio gli italiani erano 105. Gli atleti di “Casa Italia” non sono andati in albergo, ma sono stati ospitati dalla parrocchia Imaculada. I soldi risparmiati saranno utilizzati per attività e progetti rivolti ai disabili nella capitale del Brasile.
Questo evento ha fatto capire che lo sport è un investimento importante e ha un significato attivo e positivo nel welfare. Gli atleti, nelle interviste, rivendicavano il loro diritto a partecipare, a vivere, alle pari opportunità. Da essi un invito a non rassegnarsi. Sono dei disabili, però, particolari e speciali.
Nei giorni in cui si svolgevano i giochi, in un paese del beneventano, una persona di 72 anni ha ucciso il figlio di 38 anni, e ha tentato il suicidio. L’unico figlio, malato di distrofia muscolare. Secondo i suoi concittadini il figlio è stato la sua unica preoccupazione, era lui che lo portava a passeggio ogni giorno, al figlio non faceva mancare nulla. Non aveva problemi economici, ma dopo la morte della moglie era angustiato per il “dopo“. Emerge dalle notizie un quadro di tranquillità economica ma di paura del futuro. E’ la solitudine che uccide. Come sottolineato da tutti gli atleti di Rio è fondamentale la partecipazione, mettersi insieme, l’associazionismo. E’ importante condividere le paure, le fatiche. Ora ci sono le occasioni offerte dal web, i centri di aggregazione virtuali (Healt on line communities), che, specie nel mondo anglosassone, stanno modificando l’atteggiamento delle persone nei confronti delle malattie, delle cure, degli stessi medici, dei servizi offerti. Queste piattaforme creano un forte senso di appartenenza e una saggezza che va molto oltre quella del singolo malato.
Le associazioni dei familiari sono naturalmente di sostegno reciproco, di automutuoaiuto. Associazioni cioè in cui cui si affrontano e si risolvono insieme molti problemi. Fondamentale è la fiducia, l’autostima, il coraggio di accettare le sfide quotidiane, il coinvolgimento dei familiari. Come raccontano queste mamme di Manfredonia: “Mio figlio disabile mi ha spinto continuamente a creare occasioni per incontrare gli amici di scuola e le altre mamme, a fare assieme”. “Mia figlia, disabile mentale, mi ha spinto a impegnarmi. Oggi sono i problemi di una ragazza di 12 anni, ma fra tre-quattro anni dovrò confrontarmi con altre sfide, che mi fanno paura (l’amore ad esempio)”. “Gli amici purtroppo sono solo a scuola, non ci sono nel pomeriggio, nelle vacanze, nel tempo libero, che per i disabili è importante quanto la scuola”. “Mi sono impegnata a scuola per far uscire gli alunni in giardino e, attraverso mio figlio, ho difeso il diritto di tutti”. “Io ho capito che bisogna mettersi insieme. Puoi andare ai servizi, ma quando le persone sono tante… Mettersi insieme è, però, difficile”.
Il problema degli operatori e dei professionisti è la fretta, produrre risultati, invece tre cose sono importanti nei gruppi di automutuoaiuto: accoglienza, fiducia, tempo. Dare tempo e non avere fretta per le risposte.
Ci sono oggi molti documentari che raccontano le storie, la forza di volontà di singoli atleti che, in seguito alla perdita delle gambe o alla scoperta della cecità, dopo lo scoramento iniziale lentamente sono riusciti a risalire. Sarebbe bello farli vedere a scuola e nei vari centri. Sono esempi positivi ed educativi per tutti, anche per l’appello, in ogni testimonianza, a mettersi insieme, a frequentare i centri paraolimpici e ogni luogo di aggregazione. Testimonianze che servono a tutti e forse maggiormente ai cosiddetti normodotati.