”I sommersi e i salvati” di ieri e di oggi. Le storie indicibili di Adil, Isaan, Eva e infiniti altri.
Primo Levi tenta negli ultimi scritti di spiegare come funzionano i campi di sterminio. Come si annientano le personalità, la complicità delle zone grigie, il valore della memoria… Spiegare… perché le cose non debbano più ripetersi. Ma la storia si ripete e le domande di Levi riguardano il nostro presente.
“Nel campo c’era una famiglia muta. Padre, madre e due bambini. Erano inerti. Non chiedevano nulla, neanche da mangiare, e non c’era modo di capire cosa fosse accaduto. Si era tentato di tutto, senza successo. Erano intervenuti poliziotti, psicologi, un imam. Ma loro niente. Avevano valicato le montagne con la prima neve, ed erano arrivati denutriti dopo chissà quanti giorni di cammino. Ma era da un mese che si erano chiusi nel silenzio. Fluttuavano come fantasmi, non mostravano emozioni, non pregavano, non piangevano… i figli – tre e dieci anni – non giocavano“.
Una volontaria, Gulmina Bilal, ne parla con Paolo Rumiz e decidono di andare sul posto. Il campo profughi è uno sterminato pantano, trovano a fatica la tenda. All’interno c’è solo il bimbo più piccolo, raggomitolato nelle coperte, la donna si siede a terra, gli porge un dolcetto di sesamo, ma lui niente, poi un portafortuna… Il bambino lo prende tra le mani, e intanto mormora due nomi: Adil, Isaam. Li ripete a lungo… Arrivano i genitori, la volontaria li saluta e, guardandoli negli occhi, ripete quei nomi a bassa voce, “oscillando con il corpo come chi prega”, Adil, Isaam… L’uomo inizia a parlare, mentre la moglie ha scolpito in viso lo strazio di Maria sotto la croce. Gli avevano incendiato la casa, ed erano fuggiti verso il Pakistan. In sei. “Noi e i nostri quattro figli”. Adil e Isaam sono quelli mancanti.
“I sei salgono a fatica. Il piccolo di tre anni dorme sulle spalle del padre. Il più grande ha ancora abbastanza forza. Ma i figli di mezzo soffrono per la marcia interminabile e le notti all’addiaccio. Adil, cinque anni, e Isaam di sette. Arriva la neve. Mamma e papà capiscono che quei due non ce la faranno mai… E’ tardi per tornare indietro e la montagna è battuta da cani pastori enormi e affamati… E’ la legge della sopravvivenza. L’inverno da quelle parti è spietato e bisogna lasciare per strada chi non ce la fa. Ma non hanno cuore ad abbandonarli. Allora il papà li accompagna sull’orlo di un dirupo, mostra le montagne, dice che oltre c’è la salvezza, dà loro una caramella. Poi li precipita nel burrone…”
E’ accaduto vent’anni fa tra Afghanistan e Pakistan. La famiglia proveniva dal Nuristan. Il campo profughi era vicino a Islamabad. Paolo Rumiz era inviato lì dopo l’attentato alle Torri Gemelle. Non era mai riuscito a raccontare quella storia, a trovare le parole per dire il dolore, per esprimere quel silenzio irriproducibile, indicibile…
Genitori costretti a scegliere, come infinite volte nei rallestramenti, nei lager, in deportazioni ed esodi… Come Sophie, che nel campo di sterminio, nella selezione, può tenersi uno dei due bambini (l’altro deve morire) e lei decide per Jan e sacrifica la piccola Eva. (La scelta di Sophie, romanzo e film)
I sensi di colpa, la domanda di tutti i superstiti: essere vivi al posto di un altro. Levi parla in una poesia di quella pena che, a ora incerta, ritorna… di visi di compagni… indistinti per nebbia, tinti di morte nei sonni inquieti… “indietro, via di qui, gente sommersa… Non ho usurpato il pane di nessuno, /Nessuno è morto in vece mia. Nessuno…. Non è mia colpa mia se vivo e respiro…”
L’articolo di Rumiz su Robinson (23 gennaio 2021) è corredato da una grande foto. Una bambina che una mano solleva oltre il recinto. In primo piano il volto, gli occhi grandissimi e bellissimi che si guardano attorno, interrogano, si chiedono che cosa sta accadendo, più sorpresi che impauriti… Come i bambini nei campi profughi in Grecia e Bosnia (targati UE), come quelli che fuggono, annegano, sbarcano, come quelli che furono costretti ad andare via da Zara e dall’Istria tanti anni fa.