Quando Federico II e Manfredi chiedevano consigli ai sapienti dell’Islam
Ebbero in comune, Federico II e Manfredi, l’interesse per la cultura araba e la scienza. Alla loro corte c’erano i maggiori sapienti del tempo (anche ebrei e arabi) e c’era curiosità verso tutte le forme di sapere. Nell’Islam dell’epoca era rispettata la sapienza dei sufi, che coltivavano la scienza dell’interiorità, dell’essenziale e rifiutavano una lettura del Corano legalitaria, rigida, fedele alla lettera e non allo spirito. Una corrente spirituale che sul piano politico alimentava apertura, pluralismo, profondità intellettuale.
Federico ebbe una corrispondenza con un importante pensatore musulmano: Ibn sab ‘in, conservata in un manoscritto in lingua araba nella biblioteca di Oxford. Il filosofo rifiutò la ricompensa dell’imperatore, e disse che rispondeva solo per il trionfo dell’Islam.
Il sapiente musulmano con tono franco e libero criticò le domande, perché esposte con un linguaggio generico, sommario, poco coerente. La prima questione posta da Federico è l’ eternità del mondo. All’imperatore, lo stupor mundi, ritenuto uno degli uomini più colti d’Europa, che vuole certezze, il sapiente, abituato a indagare, risponde che la verità non è assoluta e più che trovarla nei testi di Aristotele, è necessario che l’animo sia disposto alla verità e “che tu apprenda che cosa è il mondo, l’eternità, l’innovazione, l’instaurazione e la creazione: con la loro conoscenza ti sarà evidente il vero”. Una lezione di metodo che supera ogni dogmatismo e stimola a un percorso originale e audace. Ibn sab ‘in dice “che diversi sono i modi in cui si parla di mondo”, al contrario dell’Occidente che si avviterà a trovare ogni verità in Aristotele (ipse dixit), e di una chiesa che condannerà Copernico, Galileo, la scienza sperimentale e la ricerca intellettuale.
Federico II guidò la sesta crociata, nella paradossale situazione di crociato scomunicato e malvisto dai Templari perché amico del sultano al Kamil. Riuscì per via diplomatica a riconquistare Gerusalemme, ma questo non gli valse la benevolenza della Chiesa.
Aveva una curiosità estesa e contagiosa. Nel “Novellino” si dice che Federico incontrò il grande vecchio della montagna che con un semplice gesto poteva ordinare ai suoi fedeli di gettarsi dalla torre e morire. Era la setta degli assassini. Parla anche Marco Polo di questo gruppo che obbediva ciecamente al capo, facendo strage di infedeli per la gloria dell’Islam. Erano ragazzi allevati alla obbedienza estrema con il miraggio del paradiso, fatto intravedere con allucinazioni provocati dalla droga ampiamente fornita: hashish, da qui il nome assassini.
L’Oriente era terra di sogno, magia, avventura. Di grandi invenzioni. Con il suo amico al Kamil Federico II discuteva di algebra e da lui ebbe in regalo un planetario e uno straordinario albero d’argento con uccelli che cinguettavano a ogni soffio di vento. E successivamente un padiglione mosso meccanicamente, che raffigurava il firmamento e mutava luce e colore secondo le ore del giorno.
Dopo la morte di Federico II ci furono anni difficili. Poi con Manfredi si rinverdì lo splendore della corte. “Ancora una volta, in quel regno del sud, brillò lo spirito sereno, la gioia di vita e la festevolezza degli Staufen; ancora una volta si seppe di filosofi e di saggi d’oriente e d’occidente con i quali il re sedeva a colloquio...”(Kantorowicz)
Ibn Wasil, storico arabo, giunto nel 1261 come ambasciatore alla corte di Manfredi nella “Terra lunga” (il nome Italia è poco usato nella geografia arabo – musulmana del Medioevo), rimase impressionato da un re conoscitore della lingua araba ed ebraica e amante delle scienze speculative. “Ebbi più volte a trattenermi con lui, e lo trovai uomo distinto, amico delle scienze dialettiche, e conoscitore a memoria dei dieci libri di geometria di Euclide”. Ibn Wasil parla anche della colonia musulmana di Lucera, dove Manfredi aveva intrapreso “la costruzione di un istituto scientifico perché vi fossero coltivati tutti i rami delle scienze speculative”.
Federico e Manfredi furono scomunicati dalla Chiesa. Dante, invece, ebbe grande rispetto dei due Svevi, “illustri eroi” , che manifestarono nobiltà e rettitudine e “vissero da uomini, disdegnando di vivere da bruti”, ed anche dell’Islam. Nel Limbo pone, tra i grandi spiriti dell’antichità, tre arabi musulmani: Saladino e due straordinari medici e filosofi: Avicenna e Averroè.