Virus e visioni di guerra. “Sventurata la terra che ha bisogno di eroi”
Sulla rivista on line Endoxa, Mimesis edizioni (Università di Trieste e Università della Campania), è uscito un mio articolo con il titolo “Questa non è una guerra”. Ne riporto alcuni stralci.
L’uso di metafore di guerra è frequente. In modo particolare lo si trova per sintetizzare in modo efficace e comprensibile un percorso complesso: guerra al cancro, alla criminalità, alla droga… Ma mai si era parlato in modo così intenso ed esteso di guerra per descrivere una grave e globale emergenza sanitaria. Vi è chi ritiene utile tale riferimento, in questa pandemia, con un nemico invisibile e un pericolo che non si percepisce immediatamente. Il richiamo alla guerra sembra necessario per far accettare al popolo scelte dolorose e sacrifici e per sviluppare uno spirito di collaborazione e di obbedienza. Una scelta utile? O non sarebbe più opportuno dire la verità, usare parole appropriate? Parole come emergenza, tragedia collettiva, agenti patogeni, spillover? Il linguaggio bellico non è adeguato a descrivere quello che stiamo vivendo. E’ più facile, più emotivo, ma acuisce la separatezza, la solitudine, invece di creare solidarietà ed empatia.
In Italia è un coro diffuso di metafore e visioni collegate in particolare alla “grande guerra”: trincea, eroi, armi, munizioni, economia di guerra, chiamata alle armi, prima linea… Il commissario Arcuri, nella prima conferenza stampa, sintetizza la strategia. Siamo in guerra e non abbiamo armi e munizioni, il nostro esercito rischia di non farcela. Stiamo perdendo anche la guerra diplomatica. Ci stanno rubando in casa mascherine e attrezzature. E allora? Acquistare tutto quello che è possibile, bloccare l’export della produzione italiana, riconvertire le industrie per la produzione di materiale utile a questa guerra. A Milano il coronavirus è peggio che i bombardamenti dell’ultimo conflitto mondiale; in Lombardia i morti sono 5 volte più di allora…
Il paese in guerra è sorretto da un rinnovato orgoglio patriottico. Tutta la pubblicità si adegua. Conte con un tweet sintetizza: “60 milioni di cittadini lottano insieme per sconfiggere questo nemico invisibile. Sventoliamo orgogliosi il nostro tricolore. Intoniamo fieri il nostro inno nazionale. Uniti. Responsabili. Coraggiosi”. Gli operatori sanitari in prima linea. Applausi dai balconi, davanti agli ospedali. Nonostante dicano: “Non siamo eroi, dateci solo gli strumenti necessari”, eroi sono definiti; e il termine deborda.
22 giugno 1633. Galilei è per l’ultima volta davanti al Tribunale dell’Inquisizione. Gli amici lo aspettano fiduciosi. Poi le campane annunciano l’abiura. Galilei (nella versione di Brecht) entra nella stanza e un suo discepolo disilluso e amareggiato: “Sventurata quella terra che non ha eroi”. Lo scienziato è prostrato, stanco, contestato. Poi in tono sommesso: “No. Sventurata la terra che ha bisogno di eroi”.
Ogni sera il bollettino di guerra. Ci obbliga a essere obbedienti, silenziosi, senza alternative. Abbiamo smarrito quel comportamento che ci porta a rispettare l’autorità, ma anche a parlare, a dire… La guerra diventa geopolitica e si riconoscono nemici e alleati: “Ci ricorderemo di quelli che non ci aiutano”. Il linguaggio bellico invade altri campi: “Per la cura Italia una poderosa potenza di fuoco. Un bazooka”. E molti giornali raffigurano il bazooka. Il bisogno di verità viene soddisfatto riempiendo tutta la tv di coronavirus. Le stesse notizie ripetute dieci, venti volte. Una pandemia e un contagio di informazioni, senza ampliamenti e approfondimenti.
E i malati? Sono chiamati a lottare. Appaiono le immagini di chi ce l’ha fatta, di quelli che hanno sconfitto il virus, frastornati, sono accolti da applausi, segni di vittoria, che sugli altri (in ospedale, in quarantena) non hanno effetto. Preferirebbero parole tenui, non essere considerati soldati. Depressi, abbandonati, senza forze cercano volti familiari. Gli inviti a lottare e a resistere aumentano la sofferenza. Lentamente escono le parole dei necrologi, prima due pagine, poi quattro, otto, infine decine. Sono vietati i funerali, le bare sono portate fuori di notte.