Gli affetti, l’amore, la morte ai tempi del coronavirus.
Nella cultura contadina, la stretta di mano era impegno per un contratto, una promessa. Era anche un segno affettuoso e cordiale prima di una partenza o dopo una lunga assenza.
Comunque era rara. Non cosi le parole ed i saluti, legati alle stagioni, auguranti il buon inizio di un’attività, l’abbondanza per l’incipiente raccolto… Lo starnuto dei bambini era salutato con “Cresci santo”, quello degli adulti (anche sconosciuti) con “Salute”. Forse perché poteva essere segno contagioso di malattia, e ci si augurava del contrario? Ero ragazzo, nelle Matine di S. Giovanni Rotondo, in un tratturo, tra gli ulivi, incrociai un uomo e una donna: “Ti vuoi voltare?” Rimasi sorpreso e non risposi. Poi ho sentito la donna: “E’ forestiero”. Non avevo capito. Era un bel saluto: “Ti vuoi girare con me? Ci facciamo insieme compagnia?”.
La stretta di mano è divenuta una consuetudine diffusa, come i baci e gli abbracci, dispensati anch’essi con facilità. Dobbiamo, ora, rimanere a distanza e sostituirli, (re)imparare l’uso delle parole, le espressioni affettuose, la cura dello sguardo e dei gesti. E gli incontri diventano molto più impegnativi. I bambini si trovano meglio, sono più sinceri, non si danno la mano, né si scambiano baci. Ho visto una bambina sorridere, fare gesti di saluto discreti, da lontano, verso la madre che si intravedeva dietro una finestra dell’ospedale. Ho avuto l’impressione che si erano dette molte cose.
I grandi scrittori di epidemie (Tucidite, Lucrezio,Camus, Marquez, Manzoni…) hanno narrato la dissoluzione dei legami familiari. Ed è questo l’aspetto più terribile dei loro racconti. “Questa tribolazione era entrata nei petti degli uomini e delle donne, che l’un fratello l’altro abbandonava, la sorella il fratello e spesse volte la donna il suo marito, e che maggior cosa è e quasi non credibile, i padri e le madri schifavano di visitare e servire i figliuoli, quasi loro non fossero”. (Boccaccio).
Ho letto di una figlia che voleva andare ad assistere il padre che moriva di tumore. Un figlio che desiderava portare biancheria pulita alla madre in una casa di riposo. Cose ragionevolmente negate nella zona rossa. Il personale della protezione civile si sostituiva. Ma non era la stessa cosa.
La lettura su l’Eco di Bergamo dei necrologi è una esperienza dolorosa, faticosa, straziante. Si accenna al distacco (momentaneo si pensava), e poi l’attesa in quarantena di notizie, l’invio ai nonni di disegni dei nipoti, il rimpianto di non essere stati vicini, non avere stretto le mani, raccolto l’ultimo sguardo… e soprattutto non aver dato il saluto, l’ultimo, ai funerali, non averli portati in casa… .
I corpi senza vestizione, chiusi nelle bare, benedizioni, inumazioni, cremazioni. Tutte frettolose. Non si poteva fare di più? Non era possibile trovare uno spiraglio di umanità, pur nel più assoluto rispetto delle regole? La religione (la chiesa) non avrebbe dovuto reclamare quel momento per cercare di dare un senso a qualcosa di inspiegabile, improvviso, assurdo, ancor più insopportabile perché collettivo? Un piccolo spazio in chiesa, con poche persone, provare a ricordare colui che è morto, solo. Una prova, una sfida per credenti e atei, tutti bisognosi di parole, tutti disposti a rivelarsi verità e sentimenti normalmente nascosti. Un momento in cui tutti sono uguali, e il mondo si rovescia, i bambini più giudiziosi degli adulti, e le persone semplici più sagge di quelle dotte. Pochi momenti per raccogliere la fragilità, o meglio la vulnerabilità del nostro essere umani, e quindi la comunanza dei destini, la fraternità. E se, poi, quando tutto sarà finito, riprendendo il racconto di questa tragedia, riusciremo a conservare un pizzico di quel sentimento di vulnerabilità, forse avremo davvero imparato qualcosa.