I megafoni della paura sono ovunque. L’agorà resta priva di voci di speranza

CULTURA

Mi trovo in una biglietteria e in fila ci sono due neri. Un signore: “Stanno dappertutto”. E continua irritato a mugugnare.

Mi rivolgo al funzionario: “Devo intervenire io o deve farlo lei?”. Quel signore, che aveva fretta, si allontana sbraitando. Basta andare al mercato, girare a piedi: “Qui se non si fa qualcosa, ce li troviamo in casa!”. “Ora finalmente c’è la legittima difesa…”. “Salvini forse esagera, ma quelli di prima li facevano arrivare in massa e arricchivano le cooperative”. “Avete visto l’Europa? Se ne frega…”. Quasi sempre sfogo di un disagio e non intenzioni meditate. Magari si è pronti ad aiutare le singole persone, ma sul tema, sul problema generale c’è chiusura.

Sono espressioni che aumentano di intensità in corrispondenza di fatti di cronaca. Sentimenti, impressioni che circolano liberamente nei luoghi informali. Non sono solo le fasce più povere, che temono di dover condividere con i nuovi venuti un welfare già povero, sono pezzi estesi di società che non riescono a vedere altra soluzione all’orizzonte che il rifiuto. Un unico, monotono racconto, costruito su una presenza che potrebbe divenire incontrollata, un’invasione che potrebbe attentare alla nostra sicurezza. L’immigrazione condensa altre paure e incertezze del futuro, che attecchiscono più in comunità sfilacciate, sconnesse, senza luoghi di incontri e discussione. Nel Sud molti nuclei familiari sono costituiti da anziani. I figli stanno fuori.

Quando andavo a trovare mia madre, mi dava tante notizie, che cosa era capitato a Tizio e Caio… erano le voci del mercato. Era importante per lei uscire, e quando non poteva farlo, per la pioggia o perché stava poco bene, ne sentiva la mancanza più di ogni altra cosa. Sono gli incontri ravvicinati quelli che fanno vivere bene, è il contatto con le persone di cui si ha fiducia. Oggi si usa l’espressione “democrazia di prossimità”, e si dice che possa aiutare a recuperare la fiducia. Giorni fa incontro un signore anziano. A vent’anni ha vinto un concorso a Bergamo e lì vive da 60 anni. Si trova bene. L’estate viene da qualche anno a Manfredonia, dove è nato. Mi dice alcune cose che non funzionano. “Noi, invece, a Bergamo abbiamo un ufficio di relazioni con il pubblico, i vigili urbani… e siamo ascoltati… Io incontro spesso il sindaco in autobus. Ci ho parlato tante volte”.

Torniamo ai megafoni della paura. Il filosofo Bertrand Russel dice che se passa un aereo con un rumore assordante gli elefanti corrono spaventati e poi, passato il pericolo, si fermano. Gli uomini, no. Anzi, dopo si rischia di avere più paura. Perché c’è la stampa. Il poeta Baudelaire diceva: non capisco come si possa leggere quotidianamente i giornali senza un moto di disgusto. E se oggi ascoltasse i telegiornali? La paura è un contagio che si trasmette con facilità.

Ci vogliono luoghi dove elaborare, raccontare i fenomeni del nostro tempo, l’immigrazione e tanti altri. In questa città c’era un camper per seguire l’evoluzione della presenza straniera nelle campagne, c’è pure una scuola ristrutturata, dove si dovrebbe affrontare questo universo sconosciuto che è l’immigrazione. Ci sono tanti racconti. Il regista Alessandro Piva nel film “Pasta nera” ha parlato di circa 90.000 bambini del Sud (molti della provincia di Foggia) che nell’immediato dopoguerra sono stati ospitati per un paio di anni da famiglie dell’Emilia. Famiglie semplici e povere, ma quelle del Sud lo erano di più, e soffrivano la fame. C’è il film “Le vite accanto” di Luciano Torniello, ambientato a Borgo Mezzanone: storie di persone immigrate, rifugiate che qui provano a sperare.

Mancano i megafoni della speranza, del dialogo, del dubbio. Volti che ascoltano. I cristiani, gli esponenti della cosiddetta società civile… non partecipano al dibattito pubblico, spontaneo. Fanno grandi discorsi nei convegni, ma non stanno nell’agorà. In uffici pubblici, per strada, nei mercati ci sentono solo quelli che raccontano le paure, mentre gli altri annuiscono e stanno in silenzio.

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