Ospedali del Sud. L’eccellenza cercata e invocata, ma dove si trova nessuno lo sa.
Come si fa a misurare l’eccellenza? Come certificare la qualità? A beneficiarne sono le persone?
In un breve periodo trascorso in ospedale ho visto come sono cambiate le famiglie, le cure, le aspettative. Si riconoscevano facilmente gli immigrati: erano spaesati e non avevano nemmeno il pigiama. Un ricoverato mi fa leggere il foglio di dimissioni: doveva portare il catetere per altri 5 giorni. Parlammo insieme su come poteva organizzarsi (medico curante, servizi sociali …). Era preoccupato ma contento di andare via. “Mia moglie ha l’Alzhaimer, riconosce solo me. E devo andare…”. Altri due nelle stesse condizioni: uno con la moglie con scarsa autosufficienza e l’altro con un figlio disabile. In quella stanza tutti erano meridionali e tutti avevano i figli fuori. Oggi non ci sono più le file di parenti in visita: sono sostituiti da cellulari e smartphone. Telefono, dopo qualche giorno, a una di quelle persone dimesse, e mi dice che la sera del ritorno a casa è stata ricoverata nell’ospedale del suo paese, perché colta da collasso. Un medico mi dice: “Ci vogliono nuove figure professionali, assistenti sociali e mediatori linguistici. E’ di questi giorni il caso di un’anziana che può vivere bene a casa. Ma è sola. Ci vuole qualcuno che l’aiuti a organizzarsi. Telefoniamo al Comune: o non rispondono o dicono che non sanno che fare”. L’eccellenza assicura il successo dell’intervento e una degenza breve, come da protocollo. Serve a poco, però, se non si crea intorno un sistema di aiuto e sostegno, di servizi infermieristici e domiciliari.
“Non possiamo fare più nulla noi, devi andare in oncologia”, dice il medico ad un paziente, che non comprende l’ultima parola. Diagnosi comunicate nel corridoio o al telefono, gesti evasivi e sguardi sfuggenti di fronte a domande e chiarimenti… La chirurgia, la radioterapia, la chemioterapia sono gli strumenti di cura per i tumori, ma ad esse è necessario aggiungere le parole, quelle dei medici e quelle dei pazienti. “All’inizio della mia carriera non avrei mai creduto che le parole sarebbero state utili quanto gli strumenti scientifici“, dice David Khayat, oncologo famoso e presidente dell’istituto nazionale francese dei tumori. Le parole possono dare fiducia e indicare percorsi di salvezza; e con le parole “mi devo rivolgere a pazienti alla ricerca di un’ultima speranza, per dire loro senza ferirle che non ho questa speranza”.
Strumentazione adeguata, formazione, meriti scientifici e professionali… non bastano. Conta molto l’organizzazione del lavoro e il ruolo del primario. Un paziente arriva in un ospedale del Nord senza speranza. Un quadro complesso e qualsiasi cura sembra causare altri problemi. Arriva, analisi di routine, lettura di cartelle, ascolto di un parente informato… il terzo giorno c’è una riunione dei primari delle 3 o 4 criticità rilevanti: oncologo, endocrinologo, pneumologo, cardiologo… Dosano un pacchetto di interventi. Non spostano il malato dal reparto, sono i medici che si muovono. Lo rimettono in piedi. E vive in piena autosufficienza per diversi anni.
“Universo Salute” raccoglie la struttura Don Uva (con case in Puglia e Basilicata) da una condizione di grave crisi e in pochi mesi è “struttura eccellente“. Questo è dichiarato in una conferenza pubblica, curata da esperti della comunicazione. L’eccellenza è solo pareggio di bilancio? Il presidente della Regione Puglia Emiliano prepara una campagna di comunicazione sulla sanità pugliese che costerà un milione e 400 mila Euro. Forse non sarà sufficiente se molti continuano a desiderare di essere ricoverati in ospedali del Centro Nord. Forse bisogna ragionare meglio sull’eccellenza. Sulle parole, le relazioni, il lavoro di gruppo e d’equipe. Qui abbiamo primari autonomi e autoreferenziali, lì riunioni quotidiane con tutti i collaboratori. Non una pratica più democratica e pluralistica, ma semplicemente la consapevolezza della necessità di utilizzare le conoscenze di tutti.