Duecento anni di Infinito. Una “catena sociale” per la cura del mondo e dell’umanità.
“L’infinito” è stato scritto da un giovane di vent’anni. Duecento anni fa. Un colle, dove si reca per antica consuetudine e una siepe che gli impedisce di guardare oltre. Si siede e, oltre la siepe, costruisce nel pensiero “interminati spazi, sovrumani silenzi, profondissima quiete”. E’ la conquista per un attimo dell’infinito spaziale, ove per poco il cuore non “si spaura”. Un improvviso soffio di vento tra le piante smuove “quello infinito silenzio” e suggerisce al giovane il senso dell’eterno. Lo spazio infinito e il tempo infinito… una immensità nella quale la mente si smarrisce, annega con un senso di dolcezza e piacere. Quando leggevamo a scuola “L’Infinito“, talvolta chiedevo ai ragazzi di chiudere gli occhi e provare a vedere oltre. Guardare l’infinito. Prendevano sempre seriamente questo gioco e mi dicevano che provavano un senso di ebrezza, di vertigine. “L’Infinito“racconta una esperienza solitaria, che ognuno può provare. Se riusciamo a sperimentarla, potremo dire di essere ancora umani.
Una poesia che appare semplice. Anche i bambini la comprendono. Dietro, però, c’è la storia personale di un giovane, le passeggiate solitarie, la noia, le notti trascorse a osservare il cielo e la luna, lo studio paziente delle lingue e dell’astronomia, e soprattutto il desiderio di andare via, di fuggire, di vedere altre città e paesi, visitare altri mondi.
Nel 1813 Giacono Leopardi scrive a 15 anni la Storia dell’astronomia; il fisico Carlo Rovelli la definisce sorprendente, impressionante, di una competenza non riscontrabile negli storici odierni della scienza. Un’opera che è anche un’appassionata difesa di Copernico, un viaggio verso universi sconosciuti.
Sia Dante che Leopardi hanno compiuto due percorsi paralleli nella poesia e nella scienza, assorbendo in profondità la lezione misteriosa della cosmologia, la regina della scienza. Quella che ci meraviglia fin da piccoli, che appartiene ai dotti e agli indotti. E’ una esperienza che tutti possono compiere. In campagna, dopo una giornata di lavoro, la sera fino a tardi si restava a guardare le stelle, il cielo puro e denso, senza le fonti luminose che impediscono di vedere e immaginare. E lì si parlava di mondi lontani e possibili, di distanze, di anni luce… E le domande degli uomini sono le stesse. Da dove viene tutto questo… E noi che ruolo abbiamo? Chi siamo? E tutti in quel momento si accorgono che “siamo fatti della sostanza dei sogni”, e che, come le foglie, così gli uomini nascono, si staccano, scompaiono. Un senso di piccolezza e anche di grandezza. Oggi con le immagini che vediamo dal cosmo ci rendiamo conto che abitiamo “un guscio sferico” di pochi chilometri di spessore, dentro il quale si svolgono le nostre esistenze; è il nostro regno. Una sfera fragile, che non protegge più le nostre vite, non ce la fa più. E tutti siamo insignificanti.
Da questa consapevolezza si può ricavare sgomento ma anche una spinta a prendersi cura del mondo e a salvare la scienza stessa da quel delirio di onnipotenza che periodicamente affiora.
Il futuro è difficile da immaginare. La paura può essere il preludio necessario alla responsabilità. Una paura non del futuro ma per il futuro. Come apprezziamo la libertà dopo una tirannia, noi non siamo in grado di dare valore alla vita, all’umanità se non quando avvertiamo il rischio della distruzione. E’ questa una paura speciale. Un’angoscia senza timore, che invece di chiuderci ci potrebbe spingere a uscire fuori, a cercare gli altri, a ragionare insieme. A sentirci legati in una “catena sociale”, una “pietà cosmica”, per prenderci cura del mondo e dell’umanità.