Sviluppo e Contratto d’area. Una buona città è quella che sa imparare dai fallimenti.
Il Contratto d’area fu firmato il 4 marzo 1998. Vent’anni fa. Nel settembre 2015, Romano Prodi, a capo del governo che promosse quell’intervento, in incontri tenuti a Bari e a Foggia, disse che a livello locale vi erano le maggiori responsabilità del fallimento: scarsa vigilanza nell’individuare gli imprenditori giusti, scarsa attenzione nell’attuare tutte le disposizioni del progetto, scarsa cura dell’ambiente e dell’accoglienza. E’ mancata la fase esecutiva, “come se tutto dovesse andare avanti da solo”.
Il Contratto d’area era uno strumento operativo concordato tra amministrazioni locali, sindacati, rappresentanza dei datori di lavoro e altri soggetti. Le nuove politiche dovevano essere incentrate meno sugli incentivi alle imprese e molto più sugli investimenti pubblici, per rendere progressivamente un po’ più attraente il territorio. Al fine di evitare che “i rischi vengano socializzati e i profitti privatizzati”. Che è poi quello che è avvenuto.
Il Contratto d’area ha avuto varie fasi e diversi protocolli. Ora è finito. C’è stata la crisi… Ma le affermazioni di Prodi meritavano (e meritano ancora) una discussione, anche per capire il ruolo delle classi dirigenti locali.
Una comunità deve acquisire esperienza, divenire competente, imparare dagli errori e dai fallimenti. Dall’esperienza del Petrolchimico si continua a ripetere un solo slogan: “No all’industria”. E poi si dimentica la bonifica del sito Enichem, su cui pare che non si possa mettere ancora la parola fine. La difesa dell’ambiente è ferma a quarant’anni fa e nemmeno si aggiorna ad altri aspetti che incidono fortemente sulla qualità della vita: il traffico, i rifiuti, le acque, le ecomafie nel territorio rurale… Non si “vedono” tremila giovani (laureati per lo più) andati via da questo territorio…
Il Contratto d’area è stato archiviato senza nemmeno una relazione finale conclusiva. Una valutazione complessiva. Resta lo spazio solo per i luoghi comuni. Non può essere in discussione lo strumento e l’intervento dello Stato, molto ci sarebbe da discutere sulla scelta e l’istruttoria delle aziende: non si seguì la via dei distretti industriali, ma nemmeno, in un periodo in cui apparivano evidenti le trasformazioni nell’economia globale, si puntò sull’innovazione. L’Amministrazione comunale non aveva un ruolo diretto nella scelta delle aziende (molte già vecchie a livello produttivo e organizzativo), ma non si dotò nemmeno di una struttura burocratica minima per governare consapevolmente questo intervento, né si sforzò di rendere i luoghi di insediamento praticabili ed efficienti. Ancora nel 2018, dopo 20 anni, quando tutte le aziende sono andate via, si è provveduto ad allacciare l’acqua in alcune aree industriali. La politica si limitò a “raccomandare”, a sguinzagliare questo o quel “faccendiere” per capire quello che si poteva “ricavare”: i lavoratori da assumere, presunti imprenditori locali che volevano entrare in campo, il contributo che le nuove industrie potevano dare per sostenere gli eventi importanti della vita della città (squadra di calcio, carnevale, feste varie…)
Una comunità può e deve imparare dai fallimenti. Non è solo la “politica”, tutte le classi dirigenti dovrebbero avvertire l’esigenza e la responsabilità di sapere e far sapere… Prima del Petrolchimico, a metà anni sessanta, si insediò uno stabilimento che produceva glutammato monosodico, un additivo alimentare. L’ Ajinomoto – Insud (con investimenti giapponesi e Partecipazioni Statali) rimase in funzione fino al 1978, quando i giapponesi andarono improvvisamente via. In questo territorio altre aziende e cooperative importanti hanno chiuso (Imes, Mucafer…), ed è sempre mancata una riflessione pubblica. Se si prova a chiedere, si domanda… sempre si coglie un imbarazzo, il sospetto che ci sia qualcosa che è meglio non dire…