La pacata e conciliante saggezza della poesia di Cristanziano Serricchio. Dono o maledizione?
Che cosa può accadere quando un poeta è letto e valutato attraverso la sua biografia esteriore: una vita appartata, schiva, priva di interventi pubblici eclatanti? Che cosa accade se si sottolinea il suo sorriso bonario e le parole comuni delle abitudini quotidiane? E ancora… se non si riconoscono le sue domande inquiete, l’ironia, la curiosità, le parole improvvise e vere che illuminano anche una breve conversazione? Può accadere che le sue poesie siano viste come recupero della memoria passata, delle tradizioni che scompaiono, dei miti di questa terra, attraversate da una composta malinconia per lo scorrere del tempo, nel segno di una religiosità profonda. Ed è tutto vero. Ma in Cristanziano Serricchio (se ne parlerà giovedì 8 Ottobre a Monte S. Angelo) c’è altro, molto altro.
E’ poeta della geografia e della terra garganica, in un presente che è planetario; è poeta della quotidianità, del conversare amico che rasserena, degli affetti familiari che appagano, ma in una incessante inchiesta sulla condizione umana di ieri, oggi, domani.
Poeta garganico, Uomo mediterraneo… definizioni che gli stanno strette. Lui si affaccia a questo sporco mare di rovine e vede “Bambini senza più luce negli occhi, / donne trafitte nel fango da baldi / manager di stupri e di violenze / fra trincee e case, dove ogni giorno / si consuma fra bossoli e granate / la prova scialba del morire”. Il Mediterraneo è un “mare di paura e di morte” dove si incrociano “solo relitti di perenni naufragi” e nel vento si sentono solo “funerei canti / o nenie di donne in attesa / alla finestra di spiagge lontane”.
“Giace assonnata” la vecchia Europa, mentre Srebrenica affonda nel sangue, sono calpestate “le selve di gerani e bandiere” a Praga, soffocato è il grido di rivolta che viene da oasi e casbe e i giovani attendono chi darà risposte alle attese dei loro “giorni smarriti“. Una “civiltà disfatta” che costringe tutti “a camminare con gli occhi e il capo piegati nella vergogna” davanti alla strage degli innocenti. “Autobomba agli Uffizi… due piccole bare / il silenzio e il velo gentile / di una vestina bianca per Caterina / e di un abitino a quadretti / gialli e rossi per Nadia”. “Figlio di ribelle tutsi Balthasar / e Patric pigmeo hutu… due dei ragazzini ruandesi / fermi ai banchi e sorridenti … sognavano allevamenti di quaglie / e mareggianti colline di grano / quando li sorprese il machete”. Un mondo vecchio che “affonda nei gironi infernali dell’odio, del sangue e dell’usura”. Si alzano muri e occhi inquieti difendono i confini “coi piedi piantati e le unghie / insanguinate sugli strati / delle macerie umane sepolte”.
Il futuro è un “gomitolo chiuso”, le spiagge “senza approdi”, i tempi inariditi, ma Serrichio esprime l’urgenza “di riannodare i fili“, di poter tornare a credere, a valori anche antichi, ed ispirarsi ad essi senza astuzie o ammiccamenti, con uno sguardo limpido. Coltiva la speranza che “la voce della passione, legando i vivi ai vivi… inventerà altri domani”.
E’ poesia civile e religiosa e la fede è “una scorta di luce”. Serricchio fa parlare le cose, gli oggetti, i volti, le mani, le persone, le vittime… Tante volte è preso dallo scoramento e si chiede se serve ancora scrivere parole “che pochi leggeranno”. A Mario Luzi dice: “In questi nostri tragici anni / sovvertita la fede e la verità del mondo e della vita / oscura, ambigua non ha più forza la parola…”. La cura della parola che “sta morendo, fragile, incompresa, violentata da tempo” resta il suo impegno costante e dichiarato. La parola, che è per lui il fondamento dell’incontro, dell’amore, della storia di un popolo, della democrazia, della civiltà.