Il castello che non si vede, ed è come “affogato”

CULTURA

Dal porto turistico il castello di Manfredonia non si vede. “Ma dov’è il castello?”, mi chiese un signore giorni fa. Indicai la direzione, ma del castello si vedeva solo qualche tenue curva muraria… se, però, uno non sa che lì c’è il castello, non riuscirebbe mai a individuarlo. Andai nelle mattinate successive agli altri porti: dal molo di Ponente si vede la parte che si affaccia verso il mare, pochi tratti. Non emerge, bisogna anche qui immaginarlo. Al molo di Levante, salii sul muretto sotto il faro, e lo vidi finalmente. Trovai, benché fosse di mattina presto, una coppia molto giovane. “Perché, di qua si vede il castello?” – chiese lei. “Ma, sì, eccolo”, disse il ragazzo”. “Però, sembra sprofondato, affogato… ma non si potrebbe provare a sollevarlo?

Guardai a lungo ed è sovrastato, schiacciato intorno. All’epoca del sacco dei Turchi (1620) il castello fu colpito con l’artiglieria da un edificio vicino posto più in alto, ed allora si decretò che nessun edificio poteva superare l’altezza del castello.

Sui moli bisogna venire per vedere l’immenso scempio. Per non dimenticare. Per vedere dove può arrivare l’arroganza, la stupidità, la debolezza umana. Non è solo il castello “affogato”, ma tutta la città storica non si vede, è scomparsa dai punti di osservazione privilegiata dei porti. Bisogna sapere quello che c’è per individuarlo attraverso pochi segni, che fugacemente affiorano: una mezza cupola, l’edicola – mosaico con Cesarano, un tratto stretto per intravedere il campanile Orsini, fa un po’ di tenerezza, così esile e sparuto. Si può fare un gioco. Vedere di ricostruire nell’immaginazione quello che non si vede e che pure c’è. E’ perduta per sempre l’immagine della città: quella che colpiva i visitatori per l’eleganza delle strade, dei suoi palazzi, il paesaggio selvaggio dei dintorni, la pulizia, la semplicità, il decoro.

Il signore che mi chiese del castello esprimeva sconcerto e meraviglia, perché tutte le città sveve, diceva, hanno il castello all’estremità, separato e protettivo, imponente. La costruzione del castello e della città per gli Svevi andavano di pari passo, dal momento che essi non concepivano la città senza il segno del potere centrale. Alla morte di Federico II molte città si ribellarono, e Manfredi, riconquistando Enna, vide le rovine della rocca e ordinò che fosse immediatamente ricostruita, perché, per lui, in nessun modo la città poteva essere governata senza il castello. Nelle città di mare il castello doveva essere posto sulla costa e ben inserito sul perimetro esterno del sistema difensivo urbano a controllare e dominare nello stesso tempo il mare e il centro abitato. Ad Augusta Federico II contrappose il suo castello alla città, un’intenzione e una struttura urbanistica simile, secondo Kirsten, alla fondazione sveva successiva e ultima di Manfredonia. Sorti, quindi, agli orli delle città, i castelli esprimevano l’immagine di un potere forte, quello della giustizia imperiale, che si opponeva alla libertà cittadina.

Il castello non si può sollevare, né l’immensa cintura di edifici abbattere. Tutto deve rimanere così come è ora. Magari in qualche tratto si potrebbe provare ad aggiustare, a rammendare. Qui però si dovrebbe venire e fare come i Navajo: gli anziani della tribù all’alba recitavano una litania di vergogna rivolta al sole, alla notte, al cielo, agli antenati, a quelli che verranno. “Mi vergogno di fronte alla terra… di fronte ai cieli… di fronte all’alba… di fronte al crepuscolo… di fronte al cielo azzurro… di fronte alle tenebre… di fronte al sole… Una di queste cose mi sta guardando. Non sono al di fuori del loro sguardo”.

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