dimmi dove hai vissuto l’infanzia e ti predìco il futuro
Carlo Levi diceva che le strade della città e dei paesi italiani erano la nostra vera casa, la casa aperta, la casa dei bambini. Lo era in particolare a Manfredonia: ci si sedeva fuori, si arrostiva il pesce e la carne, i bambini erano nelle strade. Oggi la situazione è mutata, le strade sono la case delle automobili, del pericolo, della paura. E non le abbiamo sostituite, come altrove, con parchi o anche piccoli e diffusi spazi verdi.
I bambini non si vedono più in giro. L’assenza è significativa. Essi svolgono un ruolo sociale simile al canarino, che i minatori portavano in galleria. Se l’uccellino non sopravviveva, la morte si avvicinava per tutti. Se una città non è amica dei bambini, non è amica di nessuno.
La condizione dell’infanzia nei contesti urbani è sempre più scivolata in una rigidità di tempi e spazi e contesti molteplici, ma sempre chiusi, controllati, i bambini stanno quasi sempre seduti. Ma tanto prima o poi andranno in palestra!
Qualche anno fa un questionario (la città che vorrei) poneva alle famiglie giovani di Manfredonia (hanno risposto in particolare le mamme) alcune domande semplici sulle loro esigenze. La grande maggioranza chiedeva percorsi sicuri casa scuola, strade e parchi giochi protetti… le mamme avvertivano l’esigenza per i figli degli spazi aperti!
La città, i luoghi che ci hanno visto nascere sono l’inizio, il modo come noi possiamo guardare il mondo. Come la figura della madre è fondamentale e importante per il bambino: la crescita nel corpo materno, l’attesa, le mani che lo sostengono, il volto (il primo volto al mondo), la lingua o meglio la voce, le parole, così credo siano altrettanto importanti la strada, la piazza, la gente, tutto quello che ci circonda. Lo sguardo e l’esperienza dei primi anni di vita non ci abbandona.
Quali immagini hanno oggi i bambini, costretti a vedere, nelle zone nuove, tipologie di case “copiate” altrove e cancelli e cancelli e cancelli? I bambini dell’Asilo nido comunale hanno un grande spazio intorno, ma è tutto coperto da erba alta, bidoni e rifiuti davanti all’ingresso, tutto dà un’idea e sensazione di trascuratezza… potrebbero comunque uscire fuori, sentire il sole e vedere la luce (quella luce mediterranea che piace a tanti autori di cinema) e invece quasi tutte le tapparelle sono chiuse. Non c’è nemmeno un segnale che indichi la presenza dei bambini, dell’asilo.
E allora, come può essere il mondo guardato da qui? Quali elementi penetrano dentro, da quelli esterni (sole, luce, odori…) a quelli intimi relazionali (persone, affetti…), quali figure geometriche, linee, colori (mare, golfo, bianco, grigio…). Quali elementi passano nei bambini (se passano ancora), quali i luoghi che poi diverranno memoria? E poi i sapori, i rumori… Come tutti questi elementi diventeranno carattere, spazi della mente, immagini? Forse potremmo dire: dimmi da che città vieni e ti dirò chi sei.
Molti giovani vanno via. Che cosa si portano dentro? Molti sentono o sentiranno fisicamente la mancanza della luce, del sole, del calore, del mare, dei sapori. E poi gli spazi, le esperienze di gioco in strada, il bagno a mare con i coetanei. Sono i luoghi aperti quelli che restano impressi. Una idea della libertà.
Come gli indiani d’America che nelle “riserve” cantavano: “io sono nato libero, libero come l’aquila, che vola sopra il grande cielo azzurro…” Ed ancora “Fuori, lontano, nelle montagne deserte c’è il cactus, guarda, i fiori oscillano…”. Vanno via per il lavoro, per cercare nuove opportunità, perché qui avvertono sottili elementi di esclusione e di indifferenza. Tutti lasciano una città nella quale hanno sognato, pensato, hanno guardato oltre. Hanno pure odiato questa città. Ma per tutti c’è una consuetudine, una familiarità. “Perché questa è la città dove forse non sono stato troppo felice, ma dove tuttavia anche la pioggia quando cade non è solo pioggia”.