“Premesso che non sono di destra e non sono razzista…”. Chesterton e il lampione spento.

CULTURA

Una premessa ascoltata varie volte in questi tempi: indica un malessere, il timore di essere frainteso, un modo per suggerire la corretta interpretazione della propria posizione. A Mattinata in un residence: ospiti inglesi chiedono cosa stia accadendo in Italia, perché così improvvisamente queste chiusure… Ci impantaniamo presto (con alcuni italiani) sulle parole integrazione inclusione. Le parole non esprimono più processi logici, concetti in movimento, aperti, ma classificano, definiscono, chiudono. Sono recinti.

Gli amici inglesi, in particolare Betsy, ministra della chiesa anglicana, racconta il lavoro che oggi sta facendo. “Nasce un nuovo quartiere alla periferia di Londra e stiamo preparando la comunità, immigrati per lo più. Farli incontrare, metterli insieme, introdurre elementi di condivisione (sharing). Un lavoro bello, utile”. E mostra orgogliosa le foto. In alcune solo lei è bianca. Il solito pragmatismo inglese, penso, e ci ricordiamo insieme di un apologo di Chesterton (quello di padre Brown).

In una strada si crea una gran confusione per un lampione che molti vogliono abbattere. Viene interpellato un monaco che inizia con il tono tipico dell’educatore: “Consideriamo anzitutto, cari fratelli, il valore della luce. Se la luce di per sé sia un bene…”. Ma il monaco è travolto, il lampione abbattuto. Tutti felici? In verità dopo qualche giorno emergono le divisioni: alcuni hanno agito perché vogliono la luce elettrica, altri il ferro vecchio, altri preferiscono l’oscurità. Alcuni pensano che quel lampione sia inadeguato, altri eccessivo, vi è pure chi vuole distruggere un bene comunale, e altri che vogliono solo distruggere qualcosa. Si scatena una guerra, tutti contro tutti. E gradualmente affiora la convinzione che il monaco abbia ragione e che tutto dipenda dalla filosofia della luce. Ma soprattutto emerge l’amarezza: avrebbero potuto discutere alla luce del giorno e invece devono farlo nell’oscurità.

I caffè sono sempre stati luoghi di discussione, la gazzetta popolare. In Europa hanno fatto la storia. Qualcosa di simile esiste ancora? A volte nei bar di periferia. I clienti, però, devono essere abituali ma non troppo, le persone devono incontrarsi, ma non frequentemente, altrimenti non hanno nulla da dirsi, nulla su cui litigare.

“Ecco lui è contro Salvini”. “E fa bene. State facendo male all’Italia, la state portando indietro”. “Europa se ci sei batti un colpo. Ma l’Europa non c’è. E tu che pensi?” Nuovamente sono chiamato in causa. Il bar di Siponto è pieno di gente dentro e fuori. “Le politiche migratorie sono prerogative dello stato nazionale”. “L’Europa non può stare alla finestra”.“Non ci sono soluzioni indolori, per entrare in campo l’Europa, si deve rinunciare a una parte di sovranità”. “Parlare di accoglienza volontaria è una presa in giro”. “Non possono fare entrare tutti!”. “I migranti economici devono tornare a casa”. “E gli emigranti italiani che cosa erano? E quei giovani, centinaia di migliaia, che vanno via dal Sud cosa sono?”. “Ma voi non vi preoccupate dell’identità, si stravolge tutto. I musulmani, quelli non cambiano mai”. “Avete visto come trattano mogli e figli!”. “Io però al censimento dei rom sono contraria”. “I migranti sono rimasti gli stessi dal 1960, il 3,5% della popolazione mondiale. Prima si spostavano all’interno dei Continenti, ora verso l’Occidente. Sono giovani, ragazzi, mamme incinte e sognano un futuro. E’ una colpa sognare?”.

Il discorso si spezzetta, è difficile parlare. Le paure sono evidenti e comprensibili. La miccia è accesa e il lampione è spento. Ripenso all’apologo di Chesterton e al PD, al partito che si vantava di essere l’unico a discutere. Di cosa discutesse, non si sa.

Share on FacebookShare on Google+Tweet about this on TwitterShare on LinkedIn