Quando la realtà scompare e le troppe parole distruggono la compassione.

CULTURA

Non abbiamo più un rapporto diretto con la realtà. Tutte le cose più importanti che accadono e che coinvolgono le nostre vite, i contenuti dei nostri discorsi, le nostre stesse esperienze ci vengono dalle immagini. Di fronte ai grandi eventi (attentati terroristici, e, negli ultimi tempi, terremoto, neve…) siamo inondati da ore di trasmissione in diretta. Si rimane davanti alla TV senza ricavare alcuna informazione, in attesa di qualche elemento che dia il senso a ciò che non si riesce a spiegare. Decine di cronisti  si sforzano di trovare un aggettivo diverso, presentare un servizio o commento che non aggiunge nulla a quanto contenuto nei comunicati ufficiali.

Uno spettacolo che sembra una macchina con il pilota automatico incapace di fermarsi. Si vuole raccontare la totalità dell’evento: quello che è accaduto, le conseguenze sulle persone e le cose, la reazione della gente… Ma non si usano parole sobrie. Ancor più: vi è la pretesa di spiegare perché ci sono “i salvati“. Per cui miracolo è la parola più usata. E si aggiungono i commenti della “gente”: i salvati sono quelli che “hanno pregato”, hanno “resistito e lottato”, a loro “Gesù ha riconsegnato quello che hanno seminato (i figli)”…   “Miracolo”, ma non per tutti. I parenti dei dispersi sono lì, annichiliti, in silenzio. E’ stessa logica di radio Maria. Se alcuni sono stati miracolati altri non lo sono. Sono puniti i peccatori? La salvezza è in un attimo di sosta, di fortuna, non altro. La morte e la vita a caso, imprevedibile e diversa. Eventi di questo genere non fanno perdere o acquistare la fede, cambiano la vita, con due conferme: la gracilità dell’esistenza e l’umiltà della conoscenza.

Un discorso che coinvolge la fede, l’immagine di Dio, la scienza. Da quest’ultima si vogliono parole risolutive, senza incertezza. Che accadrà? Se i sismologi rispondono “non lo sappiamo”, o “ci sarà uno sciame sismico o scosse come quelle che ci sono state, forse anche più più forti”, il cronista non nasconde la delusione e gli scienziati scompaiono dalla scena.

Non è facile raccontare la sofferenza e il cumulo delle sofferenze. Lo spettacolo, però, invade le case e cambia la nostra sensibilità, i nostri valori. Noi spettatori osserviamo degli infelici, e ci possiamo ritenere fortunati. La distanza dal dolore è descritta da un grande poeta latino, Lucrezio: “E’ bello vedere dalla terra, quando si è al sicuro, la dura fatica di un uomo mentre nel mare lotta contro le onde. Non perché sia piacevole vedere qualcuno in mezzo al pericolo, ma perché è un sollievo vedere da quali rischi si è lontani”. Il discorso di Lucrezio indica la complessità dei sentimenti di fronte al dolore degli altri.

C’è un film uscito da poco uscito di Clint Eastwood, Sully. Un aereo è in avaria subito dopo il decollo e il pilota è costretto ad atterrare sul fiume Hudson che costeggia Manhattan. Tutti salvi i 155 passeggeri. Per l’opinione pubblica il pilota è un eroe, ma subisce una inchiesta. È stata la scelta giusta? Non sarebbe stato più sicuro tornare indietro e atterrare in aeroporto? Il pilota con calma spiega la sua scelta e dice di aver fatto la cosa giusta. Clint Eastwood racconta la storia di una persona che fa il suo dovere, e tutti coloro che sono coinvolti nella vicenda fanno il loro dovere (anche i viaggiatori) e insieme compiono un miracolo. Il regista lavora per sottrazione, senza retorica, poche le parole, ma che fanno esplodere l’empatia. Non parla di eroi, non sono mai i protagonisti a dirci come sono andate le cose. Fa parlare le immagini, i gesti, gli sguardi, la sequenza degli eventi (il montaggio). Dovrebbe vederlo chi fa comunicazione. Le troppe parole spesso distruggono la comprensione e la compassione, che non è chiacchierona, né è loquace.

 

 

 

 

aQ

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