La sinistra di nuovo orfana. Sempre a rincorrere un sogno ed ora perde anche l’Europa.

CULTURA

L’Europa per la la sinistra è stata l’isola felice in cui rifugiarsi. Dopo il crollo dell’internazionalismo proletario, la fine della classe operaia… una nuova fede da abbracciare.

La sinistra è stata incapace di costruire un progetto originale che tenesse lontani i modelli indigeribili del socialismo realizzato (sovietico, cinese, cubano…). Ci ha provato (dopo il golpe in Cile nel 1973) con il compromesso storico. Siamo negli anni settanta. Nel 1976 sfiorò il sorpasso sulla Dc, ma già nel 1979 (dopo la morte di Moro) il PCI perse un milione e mezzi di voti, sia alle politiche che nelle prime elezioni europee.

Una parabola vissuta in pieno da Berlinguer, che accettò la Nato, proclamò l’autonomia da Mosca, considerò centrale la questione morale, incontrò più volta nel 1980 Willy Brandt, presidente dell’internazionale socialista. Col quale condivise l’urgenza di un nuovo rapporto Nord Sud del mondo, la necessità della cooperazione, l’interdipendenza tra pace e sviluppo. Ebbe rapporti più cordiali con la SPD tedesca che con il PSI di Craxi. Ma non compì il grande salto verso la socialdemocrazia.

Ci fu nell’agosto 1978 un momento di discussione importante. Prima un’intervista di Berlinguer su la Repubblica. “Ci chiedono di rinunciare al marxismo – leninismo e invece noi vogliamo un confronto su quello che dobbiamo fare sul piano politico e programmatico”. Craxi, sollecitato a rispondere, uscì sull’Espresso con il “Vangelo socialista”, Proudhon al posto di Marx. “Prima di dire cosa fare, occorre dire quello che si è. Il comunismo leninista ha mire palingenetiche: una religione travestita da scienza che pretende di aver trovato una risposta a tutti i problemi della vita umana, ed è, in una parola, totalitario. Per questo il comunismo non può venire a patti con lo spirito critico, il dubbio metodico. Rispetto all’ortodossia comunista il socialismo è democratico, laico e pluralista”. Il dibattito fu lungo e aspro. Proudhon (“un mediocre pensatore”, dicono dal PCI). Ma nell’articolo, sottolineano i socialisti, si citano anche Rosa Luxemburg, Milovan Gilas, Gilles Martinet, Bertrand Russel, Rosselli, Bobbio…

Il progetto “progressista” del Pci aveva due pilastri, il primo una maggiore perequazione sociale, introduzione graduale di elementi di socialismo non ben precisati, cura dei beni collettivi e  l’altro di rimodernare la società, avvicinarla alle più avanzate nazioni europee: diritti civili, ruolo delle donne, stato sociale, la democrazia nell’economia e nei rapporti di lavoro.

Berlinguer morì nel 1984. Un quinquennio e cade il muro di Berlino. Separazioni, scissioni, nuove aggregazioni… Gli ex comunisti abbracciarono l’Europa. Dall’internazionalismo operaio all’Europa. Di fronte alle istanze europee si usò la formula: “lo dice l’Europa”. La destra invece era più riottosa, pragmatica: “lo impone l’Europa”, sosteneva.

L’europeismo, una fede per la sinistra. Le fedi sono tremende, non solo quelle religiose. Europeismo è la nuova fede in un’epoca di disincanto. Difendeva lo stato sociale, manteneva il rapporto con il sindacato, faceva aleggiare lo spirito di Ventotene, proclamava la pace. L’Europa conservava i benefici del welfare in una prospettiva individualistica, senza lotta, senza impegno, il mercato funziona bene, se lo dice l’Europa. Non mancarono i critici, ma i chierici di sinistra non amano discutere. La sterilizzazione della critica ha fatto male all’Europa. A fine anni ’90 la moneta unica. Un passo affrettato. L’allargamento ancor di più. Il governo dell’Europa è complicato, divisa come è su questioni fondamentali tra paesi del Nord e paesi mediterranei… Si è pensato che, fatta l’unione monetaria, sarebbe venuto il resto. La paura di tornare indietro avrebbe rafforzato la solidarietà, avrebbe unito gli europei come altre volte. Ed è stato così. Nel stesso tempo la troika, i controlli finanziari, governi che saltano, soluzioni politiche pilotate. E’ il volto grigio dell’Europa.

Bella di giorno. Erasmus, i giovani che viaggiano, patria dei diritti, seminatrice di futuro. C’è però un’Europa di tenebre. Quella che considera inevitabile la guerra, che parla solo di armi, di conflitti inevitabili, di un futuro di opposizioni, scontri… quella che di tante previsioni non ne ha indovinata una. Ed è irritata, irrigidita. Così la “difesa europea” (che non è il riarmo dei singoli Stati!) non viene nemmeno discussa. Così sulle migrazioni sono sdoganate parole come deportation (per espulsioni). “La guerra è troppo importante per farla fare ai generali”. Ma ancor meno possono farla politici in cerca di consenso con elmetto e tuta mimetica.

Occorre rimettere in discussione tutti i dogmi e tornare a ragionare. Se non ora quando? Non basta partire da Ventotene. Occorre smettere di lamentarsi, vedere che fare di parole del passato: cooperazione, interdipendenza, pace, sviluppo, partecipazione… Come rispondere a coloro che deridono chi pensa all‘Europa di luce (quella delle relazioni, capitale sociale, cittadinanza attiva, dialogo…). Si diceva che si lasciava in eredità alle future generazioni un ambiente degradato e debiti enormi. Ora aggiungiamo una guerra inevitabile, da fare appena possibile. Serve una nuova Yalta. Prima che sia troppo tardi. Ecco perché non basta più lo spirito di Ventotene.

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