Il clima va per conto suo e le città devono salvarsi da sole. Le domande impertinenti.

CULTURA

“Lo dice la scienza”, un’espressione che non risolve, anzi apre dispute accese. E l’icona di Greta si è appannata.

L’incontro annuale delle Cop (Conferenza delle Parti, cioè dei paesi che hanno ratificato la convenzione ONU sui cambiamenti climatici) con l’obiettivo di limitare il riscaldamento non superiore a 2 gradi rispetto all’era preindustriale, non riesce a dare risposte soddisfacenti. L’obiettivo (rivisto varie volte) della “comunità internazionale”, veniva disatteso proprio dagli Stati più importanti. La “Comunità internazionale” è un’espressione generica, equivoca, utilizzata per indicare i paesi occidentali e loro alleati. Ma non esiste. Esistono Stati, soggetti pubblici e privati… con agende diverse, interessi vari ed enormi che confliggono. Il riscaldamento del pianeta apre prospettive geopolitiche impensabili: i paesi nordici già vedono i vantaggi per nuove possibilità aperte dal clima mite, le immense pianure siberiane potranno essere coltivate, la Groenlandia, con lo scioglimento dei ghiacci, aprirà le sue ricchezze nascoste… E si prospettano nuovi conflitti.

Di fronte agli interessi che non si accordano, alle scadenze che si rinviano, cresce la sfiducia, ed appare illusoria la pretesa che sia la comunità scientifica ad appianare divergenze e dispute tra le ragioni della politica e quelle dell’ambiente. La politica è fatta per pensare al presente. Noi siamo capaci di sguardi utopici, lontani, ma quando stiamo per perdere le nostre comodità (“fa caldo accendi il condizionatore!”), difendiamo con ostinazione ciò che abbiamo e ci protegge. Parlo di noi occidentali. Ai paesi poveri poi gli aiuti promessi si sono ridotti in modo vertiginoso. Chi potrà mai chiedere a una madre africana di risparmiare e ridurre le emissioni di carbonio (come sollecitiamo noi europei) e vedere i figli soffrire la fame? E gli scienziati? Climatologi ed esperti non possono avere il ruolo di salvatori; dovrebbero, invece, fare uno sforzo per arrivare a una sintesi, la più condivisa e chiara della complessa situazione climatica. Non aiuta a programmare il futuro la tendenza a delineare catastrofi imminenti.

L’ultimo appuntamento (Baku, novembre 2024) registra un sostanzialmente fallimento e viene suggerita una terapia parallela: il riadattamento dei territori, dei singoli territori. L’Unione Europea l’aveva anticipato. “Noi facciamo la guerra, dobbiamo pensare alle armi, al clima pensateci voi“. L’invito è alle città a rivedere aree abitative, quelle a verde, proteggere gli abitanti… Fatti accaduti di recente (Valencia, Emilia Romagna…), ci parlano e ci consigliano. Non esistono isole felici, né regioni che possano vantarsi di un assetto del territorio sostenibile. A Bologna, i canali antichi sono scomparsi sotto la città, sono parte del sistema fognario; modificare l’impianto è problema tecnico e politico, significa chiedersi come sarà il clima e come saremo o vorremo essere noi.

Ripartire dal basso, contrastare gli effetti devastanti su ambiente e salute. Non è facile rinunciare all’idea che i “grandi” non siano capaci di rimettere a posto il clima. Il pessimismo è dietro l’angolo. Come essere ottimisti senza perdere la lucidità? Bisogna provarci, e chissà che lo sforzo di tutti i territori non produca effetti positivi!

Cosa vuol dire riadattarci? Non è affrontare l’emergenza caldo. Come si faceva un tempo, con iniziative lodevoli. C’era persino il contributo regionale per i condizionatori! Si deve ripensare la città, la politica, la cultura. Il riadattamento coinvolge tutti i settori di una amministrazione pubblica e della società. La parola chiave è cooperazione verticale e orizzontale (comunale e territoriale). I consigli comunali si muovono lungo vie vecchie, ovunque. A Manfredonia alle commissioni ordinarie si aggiungono con grande enfasi altre straordinarie (salute, personale…) tutte inerenti la gestione di piccoli poteri locali. I consigli possono divenire luogo di analisi e sintesi, confronto e dibattitto di una rivoluzione culturale e spirituale, se solo si immaginasse che la “semplice” diminuzione del traffico urbano del 15-20% potrebbe produrre benefici impensabili per l’ambiente e la salute dell’intera comunità.

A Manfredonia, le nuove zone residenziali sono tante isole separate, con ampi spazi abbandonati. La ricucitura è un’urgenza urbanistica e sociale. Una “cintura verde”. Nelle nuove aree, lungo gli immensi viali dei Comparti, nelle vaste rotonde c’è lo spazio idoneo per il pino mediterraneo. Ci sono esercizi commerciali con smisurati e deserti parcheggi. In cemento e asfalto. Nemmeno il buon senso di creare il sistema di drenaggio che c’è al Centro commerciale di Macchia. C’è un atteggiamento “schifiltoso” di fronte agli alberi. Sporcano, gli uccelli… Si preferisce un paesaggio “tutto pulito”, asettico. Sopra i comparti c’è una pineta bella, un’altra costeggia il golfo… Sconosciute e trascurate. Poi c’è il piccolo verde diffuso (anche due – tre alberi), prezioso perché vicino alle abitazioni.

Il problema dell’acqua. Nel Tavoliere (l’agricoltura sta cambiando) fra un mese sarà già emergenza idrica per l’irrigazione e prima dell’estate lo sarà anche per uso civile. L’acqua c’è ed è usata male. Il Mediterraneo e l’Adriatico (iperantropizzati) racchiudono tutti gli effetti del clima. C’è la necessità di una filosofia di cura e protezione, svincolata dai risvolti turistici.

Domande impertinenti. Anziani poveri a piano terra, con auto parcheggiate davanti all’uscio di casa, non hanno il condizionatore. Molti hanno case enormi, condizionatori in ogni stanza, vasche idromassaggio e piscine; le ristrutturazioni di ville a Siponto distruggono recinti di siepi e alzano muri di due metri… Le piste ciclabili. La prima è ormai leggenda, la seconda del Parco con bici ridotte a monconi, la terza… non è usata da nessuno.



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