Augurarsi “Buon Natale”. Ha ancora un senso? Forse ancor più che nel passato.

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Alla vigilia ho dato gli auguri di buon Natale ad amici immigrati che lavorano nelle campagne. Indiani di religione Sikh e africani. “Forse per voi non significa niente.” “Anche per noi è importante. Un luogo povero, dove un bambino povero è nato, lì si è riparato, riscaldato” , dice Pamil, senegalese.

Pavlov viene dal Punjab, ha tre figli piccoli, vanno a scuola a Borgo Mezzanone, il servizio scuolabus di Manfredonia passa ogni mattina. “I bambini hanno parlato del presepio. Natale è una bella festa. Un bambino che nasce, è accolto, ospitato, accarezzato… Per noi è questo. Come può non essere la nostra festa”. Buon Natale. Il senso dell’augurio è in queste parole. Una storia semplice, cui ci rivolgiamo nei momenti difficili.

Il pensiero va alla vigilia di Natale del 1914, a Ypres, nelle trincee si sente un canto di Natale, altri rispondono e in quella notte soldati inglesi e tedeschi (la guerra era iniziata a luglio) si scambiano auguri, cantano… Nessuno spara. Una strana tregua in vari punti del lungo schieramento. I soldati sono ancora freschi di “umanità”. Poi questi momenti di fraternità si diradano, la guerra disumanizza, i corpi imputridiscono, scompaiono nel fango… I comandanti ci vedono insubordinazione e corrono ai ripari. Sul fronte italiano qualcosa di analogo nel Natale 1915 (l’Italia entra in guerra quell’anno), ma è bloccato subito. Un quaderno di memorie di un soldato di San Giovanni Rotondo ne parla.

Una commissaria europea propose un paio d’anni fa di eliminare questa formula di auguri. Il presepio o l’albero? Il primo no, il secondo sì. Una concorrenza che non c’è. In Siria in questi giorni c’è stata la rivolta dei cristiani perché è stato bruciato l’albero davanti a una chiesa. Alberi e presepi sono entrambi segni del Natale. Ci sono mostre di presepi, alcuni con i segni del Giubileo nelle chiese e nei conventi. Presepi viventi. E’ forse meno frequente nelle case private. Ma c’è ancora chi cerca legna e muschio per la grotta, rami con bacche colorate, lo si fa di carta, materiali riciclati, le costruzioni dei bambini, a Siponto con le pigne… Ci sono quelli piccoli che vengono dalle missioni. Il presepio tradizionale è fragile, perde la forma in pochi giorni, ma è (ed era) l’unico “fatto religioso”, in cui i bambini hanno il diritto di partecipare ed esprimersi, di giocare persino.

Se si vogliono scoprire le tracce nei vangeli si resta delusi. Solo il Vangelo di Luca parla di mangiatoia, di “grotta” parlano i vangeli apocrifi. Maria e Giuseppe sono in viaggio verso Betlemme. Maria è sull’asinello, ad un tratto dice a Giuseppe: “Calami giù … quello che è dentro di me… ha fretta”. Partorisce nel primo luogo possibile, una grotta nei pressi di Betlemme, brulicante di viaggiatori e stranieri giunti lì per compiere il dovere civico di “censirsi”, come vuole Augusto..

Il bue, l’asinello, vicini alla mangiatoia… li troviamo a partire dal IV secolo, insieme a pastori, stella, Magi… si crea subito una grande festa popolare. Racconti e tradizioni nascono, si ricongiungono, fino ad arrivare a Greccio. Nella notte di Natale del 1223, S. Francesco rievoca la natività, lui imita il belato delle pecore, ma bue e asinello sono veri. Nasce il presepio, dal basso, vario, mosso, incasinato. Il paesaggio agreste e notturno si anima di tanti personaggi, tutti hanno un posto e significato. Tutto respira di scambio, condivisione, ospitalità, accoglienza, confusione e tutti danno quello che possono. Un “rito” modesto, familiare che dà immagine a una mancanza, rende presente il “Dio invisibile”. Il Dio della rivelazione (della certezza) ha i suoi templi, c’è poi il Dio nascosto, che nasce dall’inquietudine e nessuno sa dov’è. Alle parole accorate di Salomone di un Dio senza dimora… “Eccolo – dicono le statuine – è lì, sente, ascolta, comprende”.

Mi ricordo la notte di Natale di tanti anni fa. Poco più che adolescente. Ero solo in campagna. “Vacca nova” stava per partorire. Era in anticipo e non era al primo parto. I miei erano a Manfredonia. Partorì proprio a mezzanotte. Una bestia tranquilla. Con le imparai a mungere. Fu un disastro la prima volta, non si faceva toccare i capezzoli, calpestava il secchio… Poi seguii le raccomandazioni di mia madre. Le sfiorai la fronte, la chiamai per nome. Mi presi tutto il tempo. Le accarezzai la mammella, i capezzoli… e parlavo. Mi tagliai bene le unghie. Doveva sentire il polpastrello sui capezzoli… Anche quella notte della vigilia le parlai, vidi la mammella gonfia, si sdraiò. Un contadino anziano ed esperto venne subito appena chiamato. “Vacca nova” si era sdraiata,… Stava in posizione giusta, tirammo fuori per i piedi il vitellino tremante, barcollante… in braccio lo portai davanti alla madre, che si alzò subito, lo leccò, lo ripulì…

Una notte fredda, rimanemmo nella stalla fino al mattino, alle prime luci vennero altri dai poderi. Una donna portò il caffé. Un vicino portò la notizia a mio padre. La stalla era un buon luogo dove nascere. Le vacche, la paglia, il fieno che profumava… Era il luogo più sano, le finestre ampie e sempre aperte… Nei lunghi mesi di inverno, lì c’era spazio e calore, lì ci si incontrava, i padri raccontavano… aneddoti, vicende quotidiane, storie (la guerra non era dimenticata)… e i ragazzi ascoltavano.

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