Siponto. Monet e Van Gogh per pochi giorni. Ma il fior del partigiano lassù è al freddo e al gelo.
“La passeggiata nel campo dei papaveri” è uno dei quadri più conosciuti di Claude Monet. Uno dei capolavori dell’impressionismo, una rivoluzione di colori e di luce.
Di solito tra la fine di aprile e maggio, le campagne intorno a Siponto, le strade, le maggesi in particolare, e i campi coltivati a grano (nonostante i diserbanti) sono tante mostre temporanee di impressionisti e postimpressionisti. Opere d’arte della durata di un mese. Poi occorre aspettare un anno. Chissà! Il freddo, la pioggia, la durata temporale dell’abbassamento termico potrebbero cambiare il paesaggio. Una perdita lieve rispetto a quello che avviene nelle campagne, fioriture improvvise e gelo, anticipazione e ritardi.
I papaveri sorgono spontanei e mai negli stessi posti. Poche piante isolate e e lunghe strisce di rosso. Spontanei ricoprirono, durante e dopo la prima guerra mondiale, i campi devastati di Francia e Belgio, un ricordo, una compagnia per i soldati caduti, Nei campi della Marna, dove morirono centinaia di migliaia di giovani appaiono distese immense, belle e struggenti di papaveri al vento e croci dei soldati.
Le foto sono di un’area dove nel 1528 stazionavano le truppe francesi assedianti Manfredonia, città portuale fedelissima all’imperatore. Occupavano posizioni che andavano da S. Leonardo fino al tratturo di Pulsano. Arrivarono in soccorso alla città 2000 soldati lombardi inviati dall’imperatore Carlo V e furono più devastanti dei francesi. In quell’ampia striscia di terra che giunge fino alle pendici del promontorio si combatterono molte battaglie per contendersi l’importante santuario di S. Michele. Cosi pure scontri sanguinosi ci furono nell’ampia vallata che collega S. Giovanni Rotondo a Monte S. Angelo. Lì beneventani – longobardi, bizantini, normanni si contesero i conventi di S. Egidio, S. Nicola, vie di accesso alla Grotta Sacra. L’area è chiamata Campolato. Campus- latus, campo largo. Così pensavo. Poi il prof. Michele Melillo (illustre glottologo, morto 20 anni fa) mi diede un’altra spiegazione. Non campus – latus, ma campus – leti / Campo di morte. Si basava sul suono della vocale e, che nel dialetto di S. Giovanni è aperta e si confonde con la a. Mi diede un ruvido e affettuoso buffetto: “Ricordati che sono le pietre e le parole, i suoni che ci mettono in contatto con il mondo antico. Campo di morte, perché lì in quella stretta pianura sono state combattute battaglie sanguinose“. Una lezione che non ho mai dimenticato.
8 e 9 giugno si vota per le elezioni europee e nessuno sa di cosa parlare, oltre le armi. Una specie di pilota automatico sembra spingere governi ed élite. Solo armi e difesa, investimenti militari… economia di guerra. Rinchiusi nell’Occidente e nella Nato, non riusciamo a guardare oltre. Non ci sono idee e fondi per affrontare clima, migrazioni, giustizia ambientale e giustizia sociale… C’è qualcosa di marcio in Europa. La parola Pace dà fastidio. Perciò è ancor più meritevole a Manfredonia la coraggiosa esperienza teatrale della Bottega degli apocrifi, che ha messo in scena Pace di Aristofane, uno spettacolo corale e partecipato, con decine di ragazze e ragazzi.
I campi dei papaveri e pensiamo alla guerra di Piero di De André. Una marcia nell’orrore della guerra, tra campi grano e papaveri rossi, quando ci si ammazzava guardandosi negli occhi, un attimo tremendo di umanità residua…
I papaveri, simbolo di pace, di morte. Amati per la loro flessibilità, fragilità, semplicità. Si possono raccogliere anche quando sono ancora chiusi nella capsula ovale e dischiuderli, tirar fuori le foglie raggrinzite che sembrano non aspettare altro, si distendono vogliose di luce e aria, di libertà. E non è forse il papavero il fior del partigiano morto per la libertà e seppellito lassù in montagna?