In mezzo alla grande Storia… le piccole e povere storie di Delia e di Iduzza Ramundo.
Per una singolare coincidenza due opere filmiche si sono presentate al pubblico nello stesso periodo, quasi accavallandosi; piccole storie che agiscono nello stesso luogo e nello stesso tempo, mentre la grande Storia sviluppa la sua azione aggressiva, inesorabile, potente.
Parliamo del film “C’è ancora domani” che continua a raccogliere spettatori, mentre in televisione si trasmette la fiction “La Storia” (regista Francesca Archibugi), tratta dall’omonimo romanzo di Elsa Morante. Due donne che lottano, difendono le loro creature, si adattano a vivere nel tempo della guerra, a Roma. Due piccole e povere storie che si intrecciano con quella universale e che chiamiamo Storia con la S maiuscola, che sacrifica un numero incalcolabile di vite, né sa trovare le parole per “consolare le cavie”, che non conoscono il senso della loro sofferenza e morte. Due opere che ci aiutano a riflettere sulla guerra (e sulla femminilità e maternità) e che parlano un linguaggio semplice, popolare.
“C’è ancora domani” porta a cinema gente comune e persone insospettabili, che non parlano mai di cinema, però implorano amici e conoscenti di andarlo a vedere. Il pubblico si immedesima, si emoziona, si sorprende per il finale apparentemente ingenuo, ma dal forte senso corale e politico. Al successo del film di Paola Cortellesi non hanno contribuito gli intellettuali, essi anzi non riescono a spiegarsi la folla che ha riempito le sale.
La fiction “La storia” ha avuto successo, ma non ha fatto discutere molto, rispetto all’uscita romanzo, cinquanta anni fa, nel giugno 1974. L’anno della vittoria laica al referendum sul divorzio, in un’Italia attraversata da stragi (Brescia, Italicus…), dalle prime azioni delle brigate rosse. La contestazione, altrove esaurita, da noi continuò tragicamente in lotta armata.
“Giovani di Lotta Continua che non leggono mai un romanzo hanno letteralmente divorato la Storia” Così si apre una recensione di Cesare Cases. Un amico quasi settantenne mi dice di averlo letto freneticamente, appena uscì, si commosse, pianse… Però si vergognava a dirlo. Centomila copie in pochi giorni, fino ad arrivare a un milione di copie.
Fu un terremoto. Mai visto un dibattito così acceso. Non mancarono i consensi, ma le critiche furono aspre: troppo semplice, diretto, patetico, lacrimevole. Proprio gli amici erano i più feroci con la scrittrice… “La Storia”, scritta con “il linguaggio della pubblicità”, un’opera pericolosa, che specula sulla sofferenza, vende disperazione e pessimismo. Per Calvino la letteratura può far paura, far ridere, ma non può far piangere. Il romanzo (oltre 600 pagine, uscito subito in edizione tascabile a un prezzo irrisorio) fu un’operazione editoriale che scavalcava le mediazioni intellettuali e stabiliva un filo diretto con la gente.
“La Storia” porta una dedica del poeta peruviano Cesar Vallejo, “Por el analfabeto a quien escribo” Per gli analfabeti. Gennaio 1941. Ida Ramundo, una donna vedova, maestra elementare, vive a Roma con il figlio Nino. Un soldato tedesco ubriaco (poi muore in Africa) abusa di lei, nasce Giuseppe, detto Useppe. Così inizia il romanzo: storia di una madre e dei due figli, reciprocamente e fortemente affezionati; e intorno sussurri, voci, popolo… La guerra si allarga, soluzione finale, bombardamenti… Ida a tutti i dolori delle donne di quel tempo aggiunge altre paure: è figlia di madre ebrea, teme di condividere la sorte degli ebrei del ghetto e poi si affaccia un male antico, l’epilessia. Ida con Useppe sfollano, soffrono la fame, sopravvivono in un grande casermone a Pietralata con decine di sfollati. Lì, con una grande estesa famiglia, Useppe si diverte, all’ombra del protettivo carnale amore della madre. Nino partito volontario fascista, torna partigiano e comunista. Dopo il 1943 ritornano a Roma, traslocano varie volte. Con la fine della guerra gli orrori non finiscono: Useppe ha frequenti crisi epilettiche, Nino muore inseguito dalla polizia, il suo amico anarchico ebreo Davide Segre finisce alcolizzato e drogato. Useppe vede e sa tutto. I personaggi sono stati “bombardati dentro” e non riescono a salvarsi, a tornare alla quotidianità. Morante sa far morire le persone, arriva alla vetta del dolore e lo controlla, con una scrittura calma, cronachistica. Giugno 1947, sui giornali romani appare una notizia: “Pietoso dramma al quartiere Testaccio: madre impazzita vegliando il corpo del figlioletto. E poi in conclusione: Si è reso necessario abbattere la bestia. E’ Bella, la pastora maremmana di Nino, che passa a Useppe e lo protegge… Anche in quell’occasione non vuole far entrare nessuno. Ida vivrà in manicomio. Nove anni, senza più reagire, senza parlare. Il suo decesso è segnato alla data 11 dicembre 1956.
Questo romanzo è ancora contemporaneo ? “Uno scandalo che dura da diecimila anni”, questo il sottotitolo. E allora basta dare uno sguardo attorno, alle guerre, di cui parliamo solo quando si avvicinano e ci minacciano, per capire che la Storia “non ha smesso di essere la medesima Organizzazione Criminale”, le cui imprese sono riassunte in nove memorandum, in apertura ad altrettanti capitoli. Rossana Rossanda scrisse allora: “questo libro esprime sfiducia sulla possibilità di cambiare la storia, sulla possibilità di battersi, diffonde disperazione, pessimismo, rassegnazione”. Ma davvero il pessimismo comporta l’accettazione dell’esistente, l’impossibilità di battersi? Non è un romanzo ideologico… Ma il sogno di una rigenerazione del mondo può essere consegnato solo alla politica e al sole dell’avvenire? Il libro è utopico, radicale, estremista, ma vero.