A cento anni dalla morte. Perché è utile e necessario leggere Giovanni Verga, oggi.

CULTURA

Cento anni fa, il 27 gennaio, moriva un grande scrittore italiano. Il giorno della memoria, ricorrenza di una tragedia “indicibile”, mi fa venire in mente uno strano accostamento. Quello con un autore che ci dà le lacrime delle cose e ci risparmia le sue personali lacrime.

Per gli studenti è un autore che suscita interesse e anche sconcerto. Una novità nella letteratura italiana. Alcune novelle piacciono, ma pochi vanno al di là. Il romanzo “I Malavoglia”, del resto, quando uscì fece “fiasco, fiasco pieno…”. Eppure il siciliano Verga ha influito nella letteratura, nel giornalismo, nel cinema…

Se qualcuno mi chiede: come scrivere? Rispondo: leggete Verga. Da responsabile dell’Ufficio Comunicazioni sociali, di fronte a lunghi e prolissi articoli, raccomandavo: leggete le novelle di Verga. Il verismo è un modo di descrivere la realtà, il più semplice e chiaro possibile, anche il più drammatico e persino poetico. Oggi si chiede di misurare il linguaggio, le parole, e penso a quelle usate da Mattarella, dal Papa… dal Verga. Dovrebbero leggerlo tutti quelli che parlano, scrivono e su esili tracce fanno scorrono fiumi di parole, mentre l’essenziale scompare, annegato, soffocato. Verga usa un linguaggio antiletterario, antisentimentale, ma le parole scarne vibrano di sincera pietas per le persone umiliate e i fallimenti umani. Ci dà le lacrime delle cose.

C’è un caso Verga. Lo scrittore descrive il popolo come è, non come dovrebbe essere. E’ conservatore, reazionario, non crede al riscatto delle masse popolari, non ha una visione ideologica, eppure ci dà il ritratto più autentico del Meridione, e ci mette in guardia da illusorie speranze populiste.

Ha raccontato i Vinti. Ne parla all’inizio dei Malavoglia. Della vasta marea del progresso, di questo fiume impetuoso… lui non descrive coloro che hanno vinto, hanno avuto successo, non la luce gloriosa dei trionfatori, ma “coloro che la corrente ha deposti sulla riva, dopo averli travolti…”. Coloro che hanno combattuto e hanno perso. E vengono in mente altri vinti, altri naufragi, altri corpi deposti sulle spiagge.

Il Verga non è nato verista. Anch’egli lascia la Sicilia per il Continente. Firenze, Milano… E’ accolto bene: i salotti, i caffè, i circoli intellettuali… Scrive opere “scapigliate” e tardo romantiche… Personaggi del bel mondo… Poi davanti al camino nella sua casa milanese, per dissolvenza (come impariamo dal cinema) gli appare un altro camino, quello delle grandi masserie, dei latifondi. In una giornata di pioggia, non si lavora, ci sono le raccoglitrici di olive, le loro storie… “Nedda” è il primo testo tematicamente diverso. Il ritorno in Sicilia e la conversione al verismo sono tutt’uno.

Un tempo i Malavoglia erano stati numerosi come i sassi della strada vecchia di Trezza”. E’ l’inizio. Chi parla? Si passa da un narratore – Dio che sa tutto, scruta l’animo dei personaggi, a uno che fa parte del villaggio, partecipa al coro delle voci, spettegola, sa le cose per strada. Lo spiazzamento del lettore è normale, ma se si sforza, se continua a leggere (almeno quaranta – cinquanta pagine, tanto basta per appassionarsi), allora compie un’avventura straordinaria.

I Malavoglia hanno la casa, un peschereccio “Provvidenza”, fanno il passo lungo, un commercio di lupini, tentano la fortuna e finiscono sconfitti. La Provvidenza naufraga, muore Bastianazzo… poi una serie di sciagure. Il vecchio padron ‘Ntoni cerca inutilmente di resistere, il nipote ‘Ntoni si ribella allo stato delle cose, alla maledizione della povertà. L’immagine finale è del giovane che se ne va, si guarda indietro, soffre di lasciare tutti là, con tutti i guai che ci sono. Ma parte.

Vengono in mente altre partenze. Quelle descritte da Abdulrazak Gurnah, premio Nobel 2021. Lui stesso partito giovanissimo dall’Africa. I suoi temi: migrazioni, esilio, memoria, identità. “Quando parti non pensi alle conseguenze. Lo fai perché c’è una spinta a uscire, scappare… Non ti rendi conto di quello che lasci. Nella condizione dello straniero c’è qualcosa di tragico, qualcosa che non consideri quando parti, hai una destinazione. Una volta arrivato o prima, pensi alle persone che non rivedrai per decenni o mai. Passa del tempo prima di poter dire che ne è valsa la pena (se va tutto bene). Ti aspettano anni di lotte, esperienze… Un processo doloroso...”

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