Dopo la Pandemia. Fare come negli anni della ricostruzione? Ma allora non c’erano le élites.
In campo c’erano molti nomi (rinascita, resistenza, rilancio, ricostruzione…), tutti con la lettera R. Poi il Piano da presentare all’Europa per il Recovery fund ha preso il nome di “ripresa e resilienza”.
Prima della pandemia ed anche oggi si auspica lo spirito del dopoguerra, della grande ricostruzione postbellica, guardata con nostalgia e interesse. C’era allora una conflittualità molto forte (tra comunisti e democristiani), ma c’era anche la volontà comune di uscire dalla distruzione e ricostruire un paese diverso. Tutti venivano da terribili esperienze: la guerra, la povertà, la fame.
Allora nessuno era convinto di fare cose eccezionali. Si lavorava nelle campagne, nell’edilizia, si emigrava, si facevano figli… c’era la speranza di un futuro migliore. Alla base una voglia di sapere, di imparare, di riscatto. Il popolo italiano avvertiva una “carenza” di dignità, e vi era la consapevolezza che, per cambiare davvero, l’Italia doveva divenire un paese di “qualità”, di competenze piccole e grandi.
Ho trovato una vecchia foto, un gruppo di assegnatari dei poderi dell’Ente di Riforma, che, seduti tra i banchi, seguono le lezioni per imparare a leggere e scrivere ed anche nozioni di tecnica agraria. Nella foto con i maestri c’era Decio Scardaccione (1917 – 2003). Docente universitario di politica agraria a Bari, presidente dell’Ente Riforma in Puglia e Basilicata, senatore della Dc. Visitava periodicamente le aree della Riforma fondiaria, migliaia i poderi e i nuovi contadini nel Tavoliere. Arrivava con la “campagnola” di servizio e si fermava a discutere di problematiche agrarie e sociali, tutti risiedevano in campagna, si nasceva e si moriva, e i servizi erano insufficienti.
“La teoria senza la pratica è vuota e la pratica senza la teoria è cieca”. Questa frase di Scardaccione l’ho sentita anni dopo da quei coltivatori, orgogliosi del rispetto che mostrava il “professore”, che non dava lezioni, ma ascoltava le esperienze degli assegnatari. Si sentivano valorizzati. Elite e popolo? Si integravano a vicenda.
A Giordano Ramatola, Beccarini, Fonterosa c’erano comunità che imparavano la democrazia e a stare insieme. Il forno collettivo era un punto di incontro. Era come il caffè nelle città. Si faceva la pizza anche per chi si trovava a passare. Si lavorava molto e si parlava molto. Si mescolavano i racconti di perdite e di lutti, di prigionia… si alternavano toni seri e faceti, timori e speranze. All’epoca delle scuole elementari andavo con mio padre allo spaccio dell’Ente Riforma e ascoltavo i discorsi dei grandi. Praticavano l’arte della mediazione, la ricerca di regole e la necessità del sorteggio per i turni delle arature e della trebbiatura. I discorsi vertevano sugli animali e sulle semine, le piogge scarse o abbondanti, ma anche dei maestri che arrivavano in ritardo nella scuola di Fonterosa. Era il parroco con alcuni assegnatari a telefonare frequentemente al Provveditorato di Foggia. Perché la scuola era importante!
Gli assegnatari erano in maggioranza comunisti e molti partecipavano alla messa domenicale. Era bello fermarsi prima e dopo. C’erano le famiglie, si raccontavano le vicende quotidiane, le difficoltà di abitare una terra nuova. Consigli e aiuti reciproci. Ricordo (era Natale) una discussione sulla “coscienza”, quella che “ti rimprovera quando alzi le mani su tua moglie“. Avevo sette otto anni, non ho mai dimenticato quelle parole dette da uno dei contadini più anziani, seguite da un lungo silenzio e qualcuno abbassò lo sguardo. Masse analfabete acquisivano l’idea che il mondo era più vasto, le opinioni erano diverse e la convivenza faticosa, ma anche la consapevolezza che stavamo sotto lo stesso cielo ed esistere non poteva significare porsi gli uni contro gli altri.
All’inizio degli anni sessanta è iniziata l’emigrazione… Quel mondo in pochi anni si è disperso, però, quando capita occasionalmente di incontrarsi, nonostante gli anni e le esperienze diverse, in tutti vi è il ricordo vivo di quelle discussioni, di voci che si alternavano, cercavano di ascoltarsi e di capire le cose del mondo.
Far tornare lo stesso spirito della ricostruzione? Ci vorrà tempo per restituire alla cultura, all’esperienza, alla conoscenza, alla curiosità quel ruolo formativo che rende gli uomini cittadini e persone orgogliose della propria autonomia di giudizio.