L’invidia uccide, scardina le comunità, impedisce la crescita. La cecità di non riconoscerla.
Nel duplice delitto di Lecce l’autore ha indicato come causa l’invidia. Ma non è stato creduto. E si cerca il movente “vero”. Forse lo si troverà in qualcosa di più concreto e saremo tutti più tranquilli.
Non è la prima volta che la felicità manifestata crea una reazione così violenta, assurda, incomprensibile. Non vogliamo riconoscerla, ma l’invidia come passione triste sta in mezzo a noi, cova nell’interiorità e nella solitudine, infetta vita pubblica e privata.
Nei miti e nella tragedia greca domina sovrana, la chiesa l’ha ritenuta uno dei sette vizi o peccati capitali. Il grande filosofo s. Tommaso d’Aquino ci offre nel XIII secolo un trattato straordinario e originale. Dante ne parla diffusamente come una forza distruttrice. Nel Canto VI dell’Inferno, in particolare, di fronte alla rovinosa decadenza di Firenze (e dell’Italia), dice: “… Superbia, invidia e avarizia / sono le tre faville che hanno i cuori accesi”. Noi sorridiamo a queste spiegazioni. Siamo abituati ad altre più sofisticate. Anzi abbiamo svuotato quelle passioni, e alcuni vizi sono accettati, accarezzati, ritenuti necessari. Nascondiamo l’incidenza politica e sociale che hanno.
L’invidia è contentezza per le sventure altrui, si alimenta con calunnie, diffamazioni, maldicenze. E’ un vizio senza piacere e senza vantaggi personali, ma può scardinare una comunità. Nasce dal confronto, dalla insicurezza, dalla paura dei cambiamenti. E’ connessa ai rischi dell’uguaglianza e si nutre del desiderio di riallineare tutti e di abbassare l’altro al proprio livello.
“L’invidia sociale frena lo sviluppo delle città del Sud”. Romano Prodi così disse anni fa aprendo la Fiera del Levante a Bari. Mi sembrò allora una considerazione superficiale. Questa frase è stata ripetuta spesso negli ultimi anni, in parallelo con l’importanza attribuita alla fiducia, alla coesione e al capitale sociale nella crescita socioeconomica. L’invidia frena lo sviluppo perché favorisce una situazione di conformismo, appiattimento delle differenze, controllo sociale. Alimenta una sorta di passività, inerzia, assenza di dibattito pubblico e di critica. E’ tipica solo delle città del Sud?
Ci sono luoghi dove si manifesta chiaramente. Ai Servizi sociali quotidianamente si deve rispondere a richieste dettate dal confronto e dall’invidia. “Mia figlia deve avere le stesse scarpe degli altri, e mi dovete aiutare”. “Perché a quello sì e a me no? Eppure quello ha il cellulare di ultima generazione!”. “Ho comprato lo zainetto firmato perché mio figlio non può fare brutte figure!”. “Mia figlia non esce con le amiche perché non veste bene”. L’età critica è quella dell’adolescenza. Un’età importante. L’invidia è un elemento significativo della vita scolastica. Il successo e l’insuccesso, l’elogio e le brutte figure… E’ sottovalutata o meglio taciuta dai docenti, mentre riempie gran parte della vita degli alunni. “C’è un tipo di bullismo che nasce dall’invidia”, mi dice un insegnante che conosce il problema. Si deve lavorare sui sentimenti, le passioni, le emozioni. Dare il giusto riconoscimento e parlarne, quanto meno per fermarne la deriva nel risentimento e nel rancore, e per aiutare a fare la differenza tra desiderio e invidia, rabbia e paura, euforia e felicità.
Che fare a livello politico e sociale? Il legame sociale è fatto di riconoscimento, gratitudine, reciprocità, negoziazione, compromessi, emulazione… Di fronte alle ingiustizie c’è la critica, la protesta, se queste sono svilite o soffocate, nel profondo si sviluppa un magna indistinto pronto a esplodere.
L’invidia e le passioni distruttive possono essere contrastate da altre passioni (pietas, empatia, lotta per la giustizia e per altruismo). L’invidia acceca ma può anche illuminare. Come si esce? Accettare che qualcun altro è arrivato prima e meglio di noi a una idea, a realizzare una attività. Accettare i propri limiti e di imparare dagli altri. La superiorità, i risultati positivi dell’altro “possono trasformarsi in fonti di emulazione e di stimolo alla crescita della società tutta intera”. Bastano le parole sagge della filosofa Elena Pulcini a fermare una pandemia di passioni e sentimenti incontrollati che viaggia in modo altrettanto veloce di quella microbica e virale?