“Gente di poca fede”. La religione ai tempi del coronavirus. Dio c’è: “più sperato che creduto”
Mentre siamo nel pieno dell’epidemia esce un libro (5 marzo 2020), frutto di un’ampia ricerca, iniziata nel 2017 e commissionata dalla Conferenza episcopale, sulla religiosità degli italiani.
Autore è Franco Garelli, che ha curato altri studi ed ha seguito l’evoluzione religiosa della società italiana. I dati sono “preoccupanti” rispetto a 25 anni fa. Sono aumentati coloro che non credono a nessuna religione, ed è sceso dall’80% al 65 % il numero delle persone che ritengono la religione un riferimento nel trovare il senso della vita. Aumentato dal 10 al 30% il numero di chi pensa che Dio non c’é. “Perché altrimenti tante ingiustizie non ci sarebbero!”. Cresciuto dal 10 al 30% il numero di coloro che non partecipano ad alcun rito (eccetto i funerali). Se ci limitiamo al titolo, “Gente di poca fede” e a pochi dati eclatanti, la lettura sembra facile e scontata.
Dietro i numeri, però, avvertiamo una situazione più problematica e dialettica. Intanto c’è una ambivalenza di fondo: tra coloro che chiedono alla Chiesa di stare “ferma” e coloro che chiedono di aprirsi (sacerdozio alle donne, matrimonio per i preti). Avanza un modo di credere più incerto e niente è scontato. Altre fedi e credenze passano dal 2 al 10% e coloro che credono in una potenza maligna dal 15 al 40%. Crescono i cattolici “culturali”: il crocifisso è accettato dal 67%. Mentre i favorevoli al mantenimento dell’ora di religione così com’è, e i favorevoli all’8 per mille sono di poco superiori al 50%. Dio è “più sperato che creduto”. Cambia l’approccio alla verità: vi è chi crede in un Dio esclusivo, chi crede in modo relativo e chi pensa a una religione universale.
Come leggere questa ricerca al tempo del Coronavirus? La religione non è più centrale. In questi giorni segnati dalla paura e dalla sofferenza pochi confidano nell’aiuto divino. Tutte le speranze sono affidate giustamente alla scienza. Di fronte a un nemico invisibile eppur vero e presente, che può assumere il volto di ogni persona incontrata e amica… sono mancate, nella Chiesa, le parole. Resta la nuda preghiera: il Padre nostro globale del Papa, la messa da Santa Marta… le invocazioni ai Santi Patroni dei vescovi… E sono mancati i gesti.
Nel lazzeretto a Milano nel 1630 c’erano i Cappuccini. Il Papa ha detto di non essere come don Abbondio e non ha fatto riferimento a Padre Cristofaro. I malati sono rimasti soli. Se fossero stati colpiti, come altre epidemie, i bambini, avremmo accettato di farli morire da soli? Avremmo sopportato che le madri si fossero tenute lontano per paura del contagio? Il vescovo di Bergamo ha detto ai medici di benedire i defunti, ai figli di benedire i genitori… La Chiesa a che serve se è assente in questo momento supremo di distacco? Non si potevano trovare, con un po’ di “fantasia”, forme di accompagnamento in chiesa (quelle moderne sono incredibilmente spaziose) e lì, con pochi intimi, salutare il defunto? Tutto nel rispetto delle regole e dei decreti, perché è giusto essere disciplinati e pazienti, ma anche forti e generosi.
Di fronte alla devastazione provocata dal colera, e alle persone che muoiono sole, è lei, una suora grande e grossa che rigenera l’ambiente, rende domestici gli oggetti… Non è spaventata dal contatto dei corpi, i bambini sono attirati dal suo petto enorme, ed essa con un gesto semplice spinge da parte la croce e svolge poche azioni. Si muove tranquilla, essenziale. In una casa devastata dal colera, lei tira al centro il tavolo, rialza le sedie, raccoglie le cose sparse e poi chiede: “Dove sono le lenzuola nuove?”. Parole magiche, per cui le pareti ridiventano pareti, le donne escono dallo stordimento, le persone sono nuovamente persone. Pochi gesti, semplici… e quando lo spettacolo è orribile: si siede, si mette il macinino tra le gambe e comincia a macinare il caffè. Una suora, il macinino del caffè… e si compie qualcosa di sacro, antico, sacerdotale. L’umanità torna ad essere tale, riscattata la condizione di ferinità cui l’ha condannata l’epidemia e la dissoluzione sociale. (Da L’ussaro sul tetto di Giono)