Città riccio e città volpe. E Manfredonia, che cos’è? Un anno per decidere.

SOCIALE

“La volpe sa molte cose, ma il riccio ne sa una grande”. E’ un frammento di Archiloco, di difficile interpretazione.

Può significare che la volpe con la sua astuzia è sconfitta dal riccio che ha sempre un’unica strategia difensiva. Il frammento può essere letto in senso figurato, a indicare le differenze che ci sono tra esseri umani, città e territori, ed anche intellettuali e scrittori. 

Vi sono, scrive Isaiah Berlin, coloro “che riferiscono tutto a una visione centrale, a un sistema più o meno coerente e articolato, con regole che li guidano a capire, a pensare, a sentire un principio ispiratore, unico e universale, il solo che può dare un significato a tutto ciò che essi sono e dicono”; e coloro “che perseguono molti fini, spesso disgiunti e contraddittori, magari collegati solo genericamente… il loro pensiero è disperso o diffuso perché si muove su molti piani”. La personalità del primo tipo appartiene ai ricci, quella del secondo alle volpi.

Proviamo a trasferire questo discorso alle città. Esistono città che presentano una sola forma di economia o una tipologia di sviluppo dominante: le città minerarie, o nei decenni scorsi le grandi città americane con un modello industriale prevalente; la diminuzione delle risorse estraibili o la crisi dell’industria manifatturiera, automobilistica in particolare, ha provocato guasti e rovine economiche e sociali.

Berlin fa esempi di scrittori e filosofi e comprende nel primo gruppo (i ricci) Dante, Platone, Lucrezio, Pascal, Hegel, Dostoevskij, Nietzsche, Ibsen, Proust; nel secondo gruppo (le volpi): Shakespeare, Aristotele, Erodoto, Erasmo, Molière, Goethe, Puskin, Balzac, Joyce. Sono distinzioni che generano perplessità. Valgono perché aiutano a pensare e a riflettere.

Quando questa scelta è stata operata da un intero paese, che ha legato le sue fortune alle riserve del petrolio, se non è stato in grado di diversificare le forme dello sviluppo e di utilizzare in modo intelligente la ricchezza di cui beneficiava, il rischio è stato quello di una crisi devastante su una intera area geografica. Ci sono città e territori che sono riusciti a conciliare forme di sviluppo diversificato e non pretendono di avere una sola vocazione, queste possiamo paragonarle alle volpi, in grado cioè di affrontare i periodi di cambiamento con maggiori opportunità.

La Capitanata è riccio o volpe? E Manfredonia? Nel corso di un convegno un relatore definì gli abitanti di questa città, Manfredoniani. Uno storico locale gridò dal fondo della sala: “Sipontini. Noi siamo sipontini!” Tra Siponto e Manfredonia vi è continuità o frattura? Prima propendevo per la continuità, come indica chiaramente il titolo di un mio libro: “SipontoManfredonia, storia di una città del Sud“. Oggi sono in dubbio. Siponto città autonoma, ricca, orgogliosa, dove convivevano popoli diversi, centro importante della cultura ebraica; Manfredonia, dipendente, assistita, in cerca di protezione. Una città che ha cambiato spesso la sua composizione demografica con trasferimenti coatti (Carlo d’Angiò 1278), espulsioni di interi gruppi sociali (le famiglie di origine ebraica nel 1534), le migrazioni di questi decenni.

Si dice che abbia molte cose. E’ vero. Il mare, il sole, l’agricoltura, la pesca, beni culturali… E allora? Ma che cosa sa fare Manfredonia? Come ha affrontato la modernità? Ha avuto molti aiuti dallo Stato. La Cassa del Mezzogiorno ha sostenuto ampiamente la modernizzazione della pesca. Gli investimenti pubblici sono stati notevoli: Ajinomoto (di breve durata e cassa integrazione a vita), Anic, che ha creato una cultura della dipendenza, Imes, Mucafer… scomparse nel silenzio. Poi il contratto d’area… Tutti interventi finiti male. Eppure da essi si deve partire per capire che cosa non ha funzionato. Senza lagnanze postume o un ridicolo “senno del poi”. C’è però una cosa di cui nessuno parla e che rappresenta la fotografia di questa città. I lavoratori socialmente utili (LSU). Centinaia e centinaia. Il più alto numero in percentuale d’Italia. Un esercito che ha inquinato e alterato il mercato del lavoro. Tanti i giovani imprigionati in una sigla che risuona come assistenzialismo, sempre con promesse mai mantenute, senza diritti, e che, nonostante tutto, hanno continuato a lavorare con competenza e senso di responsabilità.

Share on FacebookShare on Google+Tweet about this on TwitterShare on LinkedIn