Una strana e santa trinità va per le montagne in cerca di pecore perdute

CULTURA

Quando una festa si avvicina, gli uomini si preparano a celebrarla, ognuno a modo suo. Ce ne sono molti e Benedikt aveva il proprio.

Prima di Natale si metteva in viaggio. Riempiva la bisaccia di provviste, calzettoni e scarpe di ricambio, fornelletto da campo… Se ne andava tra le montagne in quel periodo popolate solo dagli uccelli predatori più resistenti, dalle volpi e da qualche pecora perduta. Proprio queste Benedikt cercava, bestie sfuggite ai raduni autunnali. Il suo scopo era semplice: trovarle e riportarle a casa. In questo suo pellegrinaggio non era solo. Era scortato dal suo cane Leo e dal suo montone guida, Roccia. I tre si conoscevano a fondo “con quella dimestichezza che forse è possibile solo tra specie animali molto diverse, e che nessun ombra del proprio io o del proprio sangue, nessun desiderio o passione personale può confondere e oscurare”.

Il trio (li chiamavano pure trinità) si mise in marcia verso Botn, l’ultima fattoria prima delle montagne. Intorno tutto bianco, incerti i confini tra terra e cielo. C’era in quella domenica di Avvento una solennità che stringeva il cuore. L’Avvento… Benedikt non sapeva di preciso che cosa significasse. Era l’attesa, la speranza, la preparazione… In queste cose si era racchiusa negli anni la sua vita. La vita degli uomini sulla terra, cos’era poi, se non un servizio imperfetto, sostenuto dall’attesa, dalla speranza, dalla preparazione?

Benedikt era un uomo anziano, cinquantaquattro anni. Mezzo servo e mezzo contadino. Lavorava in una fattoria, si occupava delle pecore; di suo possedeva un pezzo di terra, un capanno, il cavallo e poche pecore. Da 27 anni compiva, nel periodo dell’Avvento, quel viaggio, nel quale aveva concentrato i suoi sogni, quelli che solo lui e Dio conoscevano. Stava bene da solo, eppure quando partiva aveva una specie di vuoto nel petto, una nostalgia che non si lasciava fissare, né chiarire. Forse perché abbandonava per qualche giorno le terre abitate e a ognuno di quei commiati lo assaliva il pensiero che un giorno avrebbe dovuto separarsene per sempre. Ogni uomo teme che la vita gli sfugga dalle mani… teme la solitudine, che è la condizione stessa dell’esistenza.

A Botn lo aspettavano. Uscì la padrona di casa Sigriour, che, dopo un’occhiata al cielo: “Speravamo quasi che non venissi”. Il tempo, infatti, non prometteva nulla di buono. Poi arrivò Pjetur, il fattore. E la frotta dei bambini. Il più grande si chiamava, anch’egli, Benedikt, un nome che nella regione portavano solo in due. Nella notte arrivò Hakon, un contadino che non era riuscito a recuperare la sua mandria, e poi anche un ragazzo che cercava i suoi puledrini. Entrambi chiesero l’aiuto di Benedikt, che sapeva di non poter attardarsi, ma non se la sentiva di ignorare l’aiuto richiesto. Leo e Roccia furono bravi a trovare le piste. Raccolsero tutti gli animali, e intanto diversi giorni passarono.

Finalmente Benedikt poteva raggiungere le parti più alte, dove le pecore perdute si erano rifugiate e forse stavano morendo. Ma poteva il Creatore abbandonare al suo destino quelle povere bestie? Erano solo pecore, certo, ma pur sempre creature vive di carne e sangue; carne, sangue e anima. Leo e Roccia non avevano un’anima? La loro fiducia innocente valeva meno della fede incostante degli uomini? Con loro non si sentiva mai solo. “Certi hanno altro dalla vita, hanno di più, ma chi può dire di avere di meglio?”. Si sentiva responsabile della loro vita e della loro morte. In un certo senso tutti gli animali sono animali da sacrificio. Ma a ben guardare non è lo stesso per qualsiasi vita, quando si segue la retta via? E non è appunto questo il mistero dell’esistenza? La forza che fa crescere la vita non è l’abnegazione? Una vita che non è sacrificio nel suo nucleo più profondo è arrogante e sacrilega e conduce alla morte.

Il tempo non mutava. Nuovi giorni e nuove bufere. I tre restavano uniti e si tenevano stretti. Non c’erano più i rifugi, quelli con la legna pronta, le candele…  Ma Benedikt aveva un suo rifugio personale. Sulla costa del monte, scavata nella terra, c’era una grotta, una tana. Coperta e nascosta, non si vedeva. La cercò a lungo, finalmente nel buio sentì un suono cavo. Liberarono l’uscio e scivolarono dentro. Iniziarono le ricerche all’alba, e in quel giorno trovarono una carcassa di pecora dentro una tana di volpi. Le cime erano stranamente silenziose e imbronciate. Non era colpa sua se era arrivato in ritardo. Il giorno dopo c’era il vento del Nord, la bufera, eppure trovarono due pecore di primo mattino, poi a sera una terza, altre due nel ritorno. Roccia diede prova del suo valore. Le teneva raccolte. Benedikt era allo stremo. Nella tana avrebbe recuperato. La domenica mattina, la terza di Avvento, c’era una tormenta infinita. Un muro invalicabile bloccava il viandante solitario, lo obbligava a scalare pareti, montagne di neve accumulate dal vento. Benedikt si rotolava nella neve e tra i cumuli enormi creava grotte che offrivano riparo. Lasciò Roccia e le pecore, lui nella sua tana cercava di salvare la sua vita nuda. Tagliò la barba, che schiacciata davanti alla bocca gli impediva di respirare. “Chi non ha mai bevuto in una buca nella terra, a trenta gradi sotto zero e in mezzo a un deserto di montagne e tempesta, non sa cos’è un caffè”. Due giorni a Natale e trovò altre due pecore. Poi alla vigilia, stremato, arrivò a Botn a tarda sera, con Leo, accolto come un resuscitato. Alla sua ricerca era partito il giovane Benedikt, che raggiunse Roccia, gli fasciò le zampe ferite a sangue camminando davanti a tutti nella neve tagliente, fissò agli zoccoli calzature di cuoio e rientrò con il piccolo gregge. “Grazie, tu che porti il mio nome”. Così fini il cammino dell’Avvento di Benedikt.

Il pastore d’Islanda è un romanzo breve di Gunnar Gunnarsson (1889 – 1975). Uscito nel 1936, tradotto in Italia solo nel 2016. Nei paesi nordici è ritenuto un capolavoro. Molti lo considerano il vero canto di Natale. E vi è chi lo rilegge ogni anno.

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