Toni Morrison scriveva in “jazz” e mostra il nostro razzismo quotidiano

CULTURA

E’ morta una grande scrittrice. Il primo Nobel afroamericano. Ha iniziato a scrivere dopo i 40 anni e ha scavato, pensato, analizzato il razzismo, le cui tracce restano, nascoste e sotterranee. Non passa mai.

Basta poco e riaffiora sotto altre forme. Come gli epiteti nei confronti delle donne, che esercitano un potere, un ruolo… Vanno al di là di una dialettica sia pure dura, aggressiva maschio – femmina. Non si dice: “ti stuprerò”. Troppo impegnativo. Ma “ti devono stuprare i neri”. Coinvolgendo in un atto violento sia i neri e sia lei, la donna che osa agire.

Morrison, consapevole di un immaginario comune nel quale gli afroamericani possano riconoscersi, reinterpreta i miti fondativi della cultura africana e quelli degli schiavi delle piantagioni del Sud, come “l’africano volante”. Lo schiavo che si ribella alle umiliazioni che il padrone gli infligge e vola e ritorna nella grande Madre Africa. Gli schiavi africani portano in America i racconti che hanno come protagonista la lepre, che diviene il coniglietto Rabbit, simbolo dell’uomo africano indifeso, che riesce a sopravvivere con l’astuzia. Miti e favole che aiutano soprattutto i ragazzi e le ragazze a non cadere nella disperazione e a camminare per le strade e continuare a ridere, a giocare, a provocare.

Morrison parla di uomini e donne africani che portano dentro divisioni, paure, identità confuse, e analizza i problemi tra bianchi e neri, tra neri e neri. Come Jadine (L’isola delle illusioni), donna colta, bella che ha perduto le sue radici. Il rifiuto della pelle nera non produce solo rifiuto dell’immagine tradizionale della donna nera (madre e allevatrice di figli), ma anche del lato oscuro, inconscio, sconosciuto, con cui ciascuno di noi deve confrontarsi e che cerca di non vedere, ma che inevitabilmente affiora. Non esistono società perfette, omogenee. Ci prova un gruppo di neri, che si inventano una piccola città, convinti di aver costruito un porto sicuro dai mali della società e dalla legge bianca (Paradiso). Poi si ritrovano a vivere conflitti tra generazioni, tra politica e religione e infliggono una feroce punizione a 5 donne, per la loro diversità. Toni Morrison costruisce una miriade di personaggi che non si arrendono e lottano per la loro dignità, il rispetto, per abbattere i confini, ma anche tenere saldi altri confini, quelli che separano l’autonomia dalla soggezione, la libertà dalla dipendenza. “Amatissima” è la storia (vera) di una giovane donna nera che dopo la guerra civile fugge verso la libertà. Nella sua nuova casa vive lei (Sethe) e la figlia Denver di undici anni. Vivono sole, “nessuno ci parla, nessuno ci viene a trovare”. Nemmeno l’arrivo di Paul D, compagno del tempo di schiavitù, che come lei ha vissuto e patito pene indescrivibili, muta la situazione. Sethe non riesce a dimenticare. E non è solo l’albero, come lei lo chiama, inciso in bassorilievo sulla sua schiena, “trasformata in una scultura, simile a un lavoro ornamentale”, che con i rami e le foglie mostra a Paul D. “T’hanno pestata che eri incinta?” “E m’hanno preso il latte”. C’è altro. E’ il segreto che si porta dentro. Era già fuggita con i suoi tre figli. Viene ritrovata e costretta a ritornare. Uccide l’amatissima figlioletta di 2 anni, perché non patisse quello che aveva provato lei. “Nessuno sapeva allattarla come me, nessuno sapeva darglielo subito come facevo io. Sapeva toglierglielo quanto ne aveva abbastanza e magari non se ne accorgeva”. Una sera si presenta Beloved (Amata), una ragazza bellissima, è lei che aiuta Sethe a conciliarsi con il suo passato.

La scrittura di Morrison risente dei ritmi afroamericani, del jazz. “Jazz” è il titolo di un altro suo romanzo. Siamo ad Harlem nel 1926. Non parla del jazz, ma è scritto “in jazz”. Nel jazz può esserci il solista, ma ci sono pure altri musicisti, altri suoni, con una loro autonomia, che spezzano il ritmo, improvvisano. Così è la prosa di Morrioson: dialoghi vorticosi, polifonici, che esprimono più voci, punti di vista. E’ la “democraticità” della comunità. E’ essa che aiuta a conoscere se stessi e a costruirsi una vita indipendente, dove non c’è una sola voce, ma tante voci.

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