Usata, abusata, manipolata. L’identità è parola avvelenata.
L’identità, come la cultura, è fatta di aggiustamenti e contaminazioni, è costruita con “toppe e stracci”.
In un quartiere di Torino le maestre di una scuola materna preparano il couscous, seguendo la ricetta tradizionale. Molti i bambini immigrati. A uno di questi la maestra chiede se gli piace e se è come quello della sua mamma. “Quello di mia mamma è più buono, perché ci mette uno strato di couscous e uno di tortellini, uno di couscous…”(Aime). L’identità è come il couscous della mamma, mescola elementi diversi, e la cultura è un insieme di “toppe e stracci”. Il quartiere di cui si parla è San Salvario, vicino alla Stazione. Qui si è fermata la grande immigrazione degli anni ’50 e qui la nuova immigrazione anni ’90. Una straordinaria concentrazione in spazi ristretti e molti i conflitti. Qui sono nate le ronde e per accedere in certe zone ci voleva la polizia. Ma qui vi è stato il ruolo positivo della parrocchia (don Piero Gallo), che ha aggregato associazioni, organizzazioni varie, singole persone, commercianti, un lavoro “carsico” e poi la nascita della Casa del Quartiere, sorta nei bagni pubblici con un progetto di ristrutturazione finanziato da una delle tante fondazioni che ci sono nel Nord. Lì si svolgono una miriade di iniziative: mensa sociale, caffetteria, dibattiti, incontri di formazione, letture… Nel quartiere ora ci sono molti locali, librerie originali, una movida vivace e sostenibile…
L’identità è parola sempre più citata, evocata, ma è parola avvelenata. A Foggia la Lega dichiara di volere più foggianità e meno immigrazione. Ho chiesto in giro e nessuno mi ha saputo dire che cosa significa “foggianità”. Un po’ ovunque si cerca l’identità storica, quella civile e religiosa, con l’obiettivo strategico e prioritario di sfruttarla per potenzialità turistiche. Non amore per il passato, ma solo arricchire il paniere da offrire all’ospite.
Si parla dell’identità di un territorio. Il paesaggio porta cucito addosso idee, invenzioni, culture che si sono avvicendate e confrontate nel tempo, con popolazioni laboriose, che hanno saputo valorizzare le risorse, rispettando la natura e l’ambiente. I manufatti presenti, le tecniche di costruzione testimoniano abilità, competenze, contaminazioni, per cui l’identità di cui si parla è qualcosa che si è stratificato nel tempo, e così abbiamo nel nostro territorio tracce daunie, romane, cristiane, longobarde, normanne, sveve… Non esiste la memoria imbalsamata, essa è un rinnovarsi continuo, richiede il movimento, la crescita armonica con nuove architetture che si collegano con le antiche.
Identità è parola avvelenata. In questa parola così condivisa, universale, c’è una tossicità che può manifestarsi alla lunga, in maniera inattesa e imprevista. “Perché e in che senso identità è una parola avvelenata? Semplicemente perché promette ciò che non c’è, perché ci illude su ciò che non siamo; perché fa passare per reale ciò che invece è una finzione o, al massimo, un’aspirazione” (Remotti). Noi abbiamo la carta di identità, parliamo di identità personale, eppure siamo immersi in un continuo cambiamento fisico e psicologico. Sventoliamo una presunta identità collettiva (con croci, rosari e santi da utilizzare), con l’intento di stabilire dei confini. Noi e gli altri. Nessuno dice più “i nostri simili“. Eppure, sostiene Remotti, noi siamo fatti di somiglianze e non di identità. Quando vengono meno le somiglianze si fanno valere le differenze. Al venire meno delle somiglianze corrisponde sempre un aumento di disumanità nei rapporti sociali. E allora dobbiamo riscoprire le storie, le somiglianze con gli altri, con quelli che migrano, come racconta con parole e musica, Domenico La Marca. “In questo viaggio abbiamo smarrito la rotta”, in questo cammino affondano i sogni mentre i corpi rimangono a galla. L’ultimo brano circola ampiamente sul web ed ha vinto un premio importante. Un pezzo che emoziona e che ci fa ritrovare il senso di umanità. Che è la base per riprendere a parlare, a dialogare, a trovare soluzioni, in questo tempo in cui non sappiamo più che cosa significa restare umani.