Mafia garganica. Quella in comune e quella intorno a noi.

POLITICA LOCALE

C’è assuefazione e c’è sfiducia. Il percorso è lungo, difficile, e lo Stato da solo non può farcela. La mafia una volta radicata non scompare.

Forse è stato sbagliato anche il racconto, il resoconto che accompagna da oltre due anni l’azione delle forze dell’ordine passo passo: il Gargano perlustrato ed esplorato in ogni angolo e anfratto, il ritrovamento di armi nei muri a secco, nelle stalle… l’arresto di tutti coloro che potevano essere arrestati. Per alcuni occorre affiancare ai nuovi reparti anticrimine l’istituzione a Foggia della DDA, e quindi della Corte d’Appello… Gli strumenti di controllo e repressione sono fondamentali, ma sono insufficienti.

Intanto mai dovremmo smettere di riflettere su come siamo scivolati in questa situazione, sui ritardi con cui è stata affrontata la questione. A chi segnalava la novità di un fenomeno che stava sfuggendo di mano, molti, infastiditi e irritati, hanno girato la testa altrove, nelle istituzioni e nella politica soprattutto. Il 29 luglio del 2017 sulla Gazzetta del Mezzogiorno, in prima pagina, un ex dirigente della polizia di Stato di Foggia (Claudio Lecci) ha parlato di “un Antistato fatto di incapaci, fannulloni che hanno raggiunto i vertici e sono responsabili della vittoria dei mafiosi…” Sono essi ad avere smontato un’organizzazione di lavoro che aveva dato risultati apprezzabili e penalizzato il personale valido già “ammorbato dal pessimo esempio della inadeguata classe politica”.

Sono stati sciolti per mafia due comuni, e sul terzo si aspetta la conclusione dell’indagine. Lo scioglimento dei Consigli comunali per infiltrazioni mafiose non è un “provvedimento sanzionatorio ma preventivo”. L’esame della situazione può far ipotizzare “una soggezione degli amministratori locali alla criminalità organizzata (vincoli parentali, amicizie e affari, frequentazioni…)”, anche quando gli indizi raccolti non sono sufficienti per l’avvio dell’azione penale verso singoli esponenti della giunta, che, a Monte S. Angelo e Mattinata, sono penalizzati più per quello che non hanno fatto che per quello che hanno fatto.

Questo provvedimento, forte e temuto, non è risolutivo. Coglie solo la responsabilità del ceto politico, mentre altrettanto coinvolta è la macchina burocratica comunale; senza dimenticare altre articolazioni importanti: le banche, i luoghi di svago, le palestre, le scuole…

Qualche giorno dopo l’uccisione di Francesco Pio Gentile sono andato a Mattinata. Era un pomeriggio festivo, cercavo indicazioni per una strada e mi sono avvicinato ad un gruppo di ragazzi seduti sui gradini di un palazzo di periferia. Parlavano a voce bassa, si guardavano attorno, ma non si accorsero che mi era accostato. Si sono scossi improvvisamente, impauriti. La cautela, la prudenza, il sospetto a Monte S. Angelo e Mattinata sono evidenti, e si manifestano nei luoghi informali: i bar, i piccoli negozi, il mercato… Sono i luoghi dove normalmente si fa comunità, si parla liberamente, si critica, si usano vari registri comunicativi (ironia, paradosso, chiacchiera), e che ora sembrano divenuti anonimi e spenti.

 “Nessuno vede e nessuno parla”, come se fosse semplice fare il contrario. C’è un contesto nei piccoli paesi che metterebbe in crisi chiunque. E’ vero che molti sanno, e si sono imposti il silenzio! Ed è pure vero che ci sono genitori che invitano i figli anche piccoli a “stare attenti”. Ma quanto costa questa perdita di spontaneità e naturalezza? Sono oltre 300 i comuni sciolti per mafia. Lo Stato dovrebbe accompagnare questo intervento con altro. Serve accanto ai commissari, un’azione culturale profonda, con mediatori, psicologi, animatori. Un progetto che duri per il periodo di presenza dei commissari. Avvicinare le famiglie “mafiose”, le mamme e i bambini, fare opera di ricucitura, laboratori teatrali e cineforum, programmi radiofonici. Coinvolgere le donne e i ragazzi. Quello che fece Olivetti a Matera o si fa nelle zone colpite da terremoti o altre sventure. Lo scioglimento per mafia, se vogliamo dare un senso alle parole, è un terremoto sociale, in un contesto già impoverito dall’emigrazione dei giovani e dalla cronica carenza di dibattito civile e politico.

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