Gente italiana nel mondo. Il muro di Trump è stato pensato 140 anni fa.
Una vignetta della fine dell’Ottocento: un grande muro, ci sono quelli che stanno sopra e spingono la scala per allontanare quelli che vogliono salire (sono i cinesi, allora al livello più basso di gradimento).
Di fronte ai racconti, alle cronache, alle vignette, ai fumetti (strumenti importanti per capire umori, stereotipi…), è facile fare accostamenti, stabilire analogie con quanto avviene oggi. Gli italiani erano quelli maggiormente presi di mira in “America”. Dopo gli afroamericani è stato il gruppo che più ha subito la feroce pratica del linciaggio. Partivano per “fame”, ma vi erano anche anarchici e socialisti che desideravano costruire il futuro in un mondo nuovo. Partivano da Napoli, dal molo “Immacolatella” e per un quarantennio tra Ottocento e Novecento lì si ammassavano circa 3.000 persone al giorno, ogni giorno dell’anno. Quanti furono? 15 milioni? 20 milioni? A New York a fine Ottocento vi erano 500.000 residenti italiani, ed era la seconda città “italiana” (la prima era Napoli).
A S. Marco in Lamis, paese garganico di emigrazione ma anche dove più che altrove il fenomeno è studiato e ricordato (Frontiere, rivista del Centro di documentazione di Storia e letteratura dell’emigrazione compie 20 anni), si è tenuto un convegno importante. Storie familiari, vicende inverosimili, scambi linguistici e culturali. “Gli archivi sull’emigrazione sono smisurati, secondi solo a quelli delle due guerre mondiali” (Sergio D’Amaro). L’emigrazione verso l’America tra Ottocento e Novecento ha lasciato poche tracce letterarie: erano analfabeti, emarginati, umiliati. I narratori sono quelli della seconda generazione.
Joseph Tusiani parte con la madre alla fine della seconda guerra mondiale da S. Marco in Lamis per raggiungere il padre in America. Ha 23 anni. Entra in un nuovo mondo. Quando arriva si rende conto che l’odissea dell’emigrazione è piena di insidie. Il primo è la separazione fisica dal paese di nascita, poi si accorge che deve compiere altri viaggi, tra cui, il più arduo, quello linguistico culturale. Un processo di acquisizione e di perdita. Si resta sempre sospesi tra due mondi, due lingue, due anime. E Tusiani è poeta e scrittore in inglese e italiano, latino e dialetto.
Le figure femminili sono state un riferimento fondamentale nelle partenze e nelle permanenze. Sono le madri che conservano i ricordi, le lettere. La famiglia e la società contadina, attraversate da guerre ed emigrazione, devono alle donne la continuità e la sopravvivenza. Agli uomini partiti da soli e che hanno popolato le città del mondo, corrispondono le donne rimaste sole in paese e nelle campagne. Un’attesa che le ha portate ad assumere un nuovo ruolo nella cura della famiglia e nell’educazione dei figli. Per molte l’attesa è continuata a lungo. “Vedove bianche” erano chiamate le donne rimaste sole, i cui mariti non avevano dato più notizie. L’emigrazione è fenomeno complesso. C’è la sofferenza di chi parte e di chi resta, ed anche il disagio di coloro che non riescono a integrarsi e di quelli che tornano, dopo 20 – 30 anni di permanenza all’estero. Il ritorno, in una realtà molto mutata da quella lasciata tanti anni prima, spesso si conclude con una ripartenza.
Francesco Durante ha detto nel Convegno che a Napoli al molo dell’Immacolatella non vi è una targa, un segno per ricordare un esodo biblico. E nemmeno vi è alla stazione Rocchetta S. Antonio. Nel film “Ultima fermata” rivivono le storie di generazioni le cui vite sono state scandite dai passaggi di una linea ferroviaria: Rocchetta S. Antonio – Avellino (aperta nel 1895 e sospesa nel 2010). Un treno che ha assistito muto spettatore a partenze e arrivi, incontri e abbandoni di intere famiglie. Il film racconta di un capitano dei carabinieri che torna al paese per i funerali del padre, capotreno di quel tratto e conosciuto come colui che “fischiava in ritardo la partenza del treno“, quasi a fermare il tempo, per permettere alle famiglie gli ultimi abbracci e saluti. Sapeva che non sarebbero più tornate,