A Genova la sede del PD apre solo per appuntamento. A Manfredonia gli incontri si tengono al bar.
La sede di un partito è patrimonio pubblico, luogo di discussione e dialogo, un presidio civico prezioso.
Nel pomeriggio delle primarie un collegamento televisivo con Genova cercava di capire come la gente di una città “ferita” reagiva e partecipava a una iniziativa del Pd, un partito prima egemone e ora all’opposizione nei vari organi di governo della Regione. “Ma cosa hanno potuto mai fare per perdere tutto, un patrimonio di idee, esperienze, relazioni?”. “Niente di così eclatante. Hanno pensato solo a sé stessi. Si sono dimenticati di chi li aveva eletti”. Erano intervistate figure importanti della cultura, della chiesa, dell’associazionismo. Tutti d’accordo. Il più duro è stato lo scrittore Maurizio Maggiani: “Io non sono mai stato iscritto, però passavo dalla sede… si discuteva, si parlava, si conoscevano le persone… Ora la sede del Pd apre solo per appuntamento”.
Che strano! Usavano le stesse parole che si usano qui, a Manfredonia. Parole ed espressioni che ora ripetono tutti e sintetizzano bene il senso della crisi della politica. Mi sono recato a votare dopo la trasmissione, anche per vedere la nuova sede del Pd. Quella vecchia, grande, centrale, costosa… aveva accumulato parecchi debiti. Un lungo travaglio e poi l’abbandono. Ora la nuova sede, piccola, sempre nei pressi del Corso, marginale (un po’), adatta a questi tempi. Ero passato almeno una decina di volte negli ultimi tre quattro mesi ed era sempre chiusa. Lo stesso era accaduto ad altri che frequentano più assiduamente di me il Centro storico. La sede del Pd non è luogo di discussione e di incontri. In un anno nessuna pubblica assemblea… Il Sindaco da quando svolge attività politica incontra e dà appuntamento nei bar della città. Altri gruppi si riuniscono in bar specifici e ben riconosciuti.
Al seggio, nonostante l’ora insolita, c’era un flusso continuo. Persone spinte a votare per “esserci”, per inviare un segnale, ma senza molta convinzione. I tre candidati erano credibili e la maggior parte votava quello più probabile per “farla finita”, “voltare pagina”, “così non hanno scuse”. Zingaretti, la persona giusta, per ora. Calmo, mediatore, un leader affidabile e sorridente. Dai risultati finali un piccolo segno di chiarezza. Nient’altro. Le questioni politiche non cambiano.
La spiegazione del voto la troviamo in un capitolo importante del Principe del Machiavelli. Coloro che governano sono o “rispettivi” o impetuosi, agiscono con pazienza e prudenza (respetto) o con impeto, violenza. Non c’è un comportamento valido sempre. Dipende dalle circostanze, dai tempi. Ci sono tempi che richiedono prudenza e altri invece “decisionismo”. E questi sono i tempi giusti per Zingaretti: dopo un anno di governo con parole urlate, slogan, promesse fumose, crescita di odi e rancori in larghe parti del Paese si avverte il bisogno di parole più curate, di legami, di aggiustare i cocci, di una visione più rassicurante del futuro. Un bisogno già emerso da alcuni mesi con strade e piazze che sono tornate a riempirsi (soprattutto nel Nord). Forse avrebbe perso anche Renzi, che pure ha scritto un libro interessante e scorrevole (in testa alle classifiche) e che ad ogni presentazione raccoglie folle considerevoli.
I tempi sono quelli oggi della mediazione, della necessità di ritrovare un’unità. E anche di vedere cosa fare del Partito. Delle sedi innanzitutto. Perché a Genova non sia disponibile solo per appuntamento e a Manfredonia diventi una casa di tutti e non aperta solo in campagna elettorale. Zingaretti propone un partito aperto, con forme di consultazione tra iscritti e simpatizzanti, commissioni con la partecipazione di associazioni e cittadini… Il problema è ribadire la proprietà: non è dei notabili, dei clan, dei padroni delle tessere, degli “iscritti” interessati. Occorre trovare la formula per coinvolgere quelli che contano davvero e sono gli elettori. Il rispetto del voto deve tornare ad essere qualcosa di sacro. La sovranità che passa dai cittadini elettori agli eletti non è mai totale, e di questo passaggio di sovranità bisogna rendere conto. Sempre.