Che fare della scuola? Tra genitori bulli e insegnanti stanchi…
In una diretta radiofonica dal Parlamento si discuteva di scuola, sistemazione dei docenti, chi entrava e chi usciva, e anche delle promesse fatte nella campagna elettorale… Qualche accenno alla continuità didattica, alla sicurezza del posto di lavoro, alla necessità di prestare attenzione alle esigenze dei docenti, ai quali “sono affidati i nostri figli”. Gli interventi erano “poveri”, le informazioni generiche e i parlamentari non mostravano di possedere un’idea della scuola e della sua funzione oggi.
Una scuola dove tutte le componenti (Miur, segreteria, personale Ata…) stanno al servizio di docenti e alunni, che devono operare insieme, collaborare, imparare. Pensare al futuro. Sperimentare giorno per giorno. Fare scuola significa questo.
Una scuola della quale non si parla quando “integra” alunni diversi, o quando include chi resta indietro, o inventa quotidianamente forme nuove di comunicazione. La scuola entra nelle case quando si raccontano fatti di bullismo, comportamenti aggressivi dei genitori, ed anche quelli, purtroppo, dei docenti nei confronti dei bambini.
Ho conosciuto una madre che, nello scorso anno, è andata a scuola a sbraitare contro gli insegnanti. Dopo quell’episodio il figlio non voleva più andare a scuola. “Si vergognava, però io avevo ragione“, le conclusioni materne. Si sentiva umiliato. Non rispetto agli insegnanti ma rispetto agli amici. I genitori hanno nei confronti della scuola lo stesso rapporto che hanno verso le altre istituzioni. Di contrapposizione, di rivendicazione continua. Ma qui ci sono i ragazzi, con sensibilità diverse, e tutti fin dalla scuola elementare non hanno un rapporto esclusivo con gli insegnanti, ma con il gruppo classe, dal quale si sentono osservati e giudicati. E nessuno vuole apparire protetto, difeso. Insomma i ragazzi, anche se non lo danno a vedere, si vergognano di genitori protettivi, invadenti o peggio. Vittorio Foa disse nel 1968 che bisogna amare i libri anche quando sono bugiardi. Non era facile dirlo allora. Io dico che bisogna amare la scuola anche quando è ingiusta. Quei piccoli presunti fallimenti dei figli, quelle “ingiustizie” possono fare bene. Il ruolo dei genitori è importante per la scuola, hanno il diritto di essere informati, di esprimersi, possono essere un “valore”, a condizione che abbiano un rapporto di cooperazione con gli insegnanti.
Tra i docenti c’è stanchezza; pochi sono disposti ad impegnarsi in progetti extra scuola. Docenti di poco più di cinquant’anni fanno già i calcoli per andare in pensione. E fanno fatica a scuola. E’ finito il tempo in cui tutto poteva essere calato dall’alto, i ragazzi non riescono a stare tanto tempo fermi in classe. L’attività dell’insegnante, per quel poco che ho sperimentato e ho visto, non può essere svolta come le altre attività dell’impiego pubblico. Il rapporto educativo è complesso e non si può svolgere senza entusiasmo.
Eppure la scuola rimane l’unica “agenzia” di formazione, l’unico antidoto alla superficialità. L’unica in grado di costruire un senso di complessità, l’unica fondata sui perché, sulle cause, sulla dimostrazione. Svalutazione della scuola e politica senza competenze vanno di pari passo. Produciamo poche conoscenze, le trasmettiamo male, non diamo dignità a chi lavora nell’educazione, nella formazione, nella ricerca, non rispettiamo e non ci fidiamo di chi ha studiato. Il Comune (un tempo si chiamava università) è parola bellissima, indica l’insieme dei cittadini, è la comunità che si prende cura… ebbene il Comune ha poche risorse, ma qualcosa può fare. In accordo con le scuole può aprire un cantiere per lo scambio di esperienze, un progetto genitori, un centro di documentazione sulle iniziative di innovazione, il prestito libri decentrato… Qualcosa… che significhi attenzione e premura.