La palla non è sempre rotonda e nel calcio c’è tutto il bello e il guasto del mondo.
E’ lo sport più povero del mondo. Una palla e uno spazio: si gioca in strada, nei cortili, nelle piazzole, nei corridoi di casa. Un gioco antichissimo e la palla la troviamo raffigurata nei reperti più remoti di tutte le civiltà. Non era proprio rotonda e anche per questo si giocava preferibilmente con le mani.
Gli inglesi (rappresentanti di 11 università) nel 1863, nel pub londinese Freemasons’ Tavern, stabilirono che si doveva giocare con i piedi e lo chiamarono football. Lo pensarono come una giostra medievale. C’erano le squadre, ma lo scontro era uno contro uno, un dribbling continuo. Uno schema 1-1-8. La confusione in campo era totale e quello schema durò poco. Gli scozzesi introdussero il passaggio della palla, ed emerse il collettivo. A fine Ottocento la piramide di Cambridge (in pratica un 5-5) e si prese in considerazione l’equilibrio della squadra: i vari sistemi, i teorici, i profeti. Liedholm andava alla ricerca della partita perfetta. Le grandi scuole: il gioco olandese, quello italiano…
Senza l’Italia, pochi adulti hanno visto le partite del campionato del mondo, tanti invece i ragazzi (scuole elementari e medie); li ho visti scendere giù dopo le partite pomeridiane (a Siponto, negli spazi vicino alle scuole, nelle strade), parare “a mano aperta”, tirare il rigore come Kane, provare veloci scambi in spazi stretti. I ragazzi vedono subito le novità. Mancano oggi i luoghi aperti, quelli dove si possa praticare liberamente, quando capita, quello sport di gruppo straordinario che è il calcio. Erano un tempo le strade di periferia, gli spiazzi liberi dentro e a ridosso del Centro abitato… si delimitava il campo, si formavano le squadre e si giocava. Senza arbitri. Discussioni, litigate, si era obbligati a stare e a decidere insieme. Si giocava pure a piedi nudi, di sera, al buio. A volte la palla era “arrangiata” o era uno di quei palloni di plastica sgonfi e bucati. Il pallone di cuoio era un miraggio. Uno sport povero, per davvero.
In queste giornate c’è tutto il bello e il guasto del calcio: il potere economico e televisivo, le tante storie umane, splendide partite, giocate straordinarie, e poi il dilemma di sempre: quanto valgono le individualità e quanto il collettivo, nel calcio e anche altrove, nella politica, nelle imprese, nella vita?
Il sistema va costruito con i giocatori che hai, muta in base alle situazioni: se devi difenderti o devi attaccare…Le individualità sono importanti, ma altrettanto lo è il collettivo. Conta la voglia di giocare insieme, il desiderio di vincere… Sono cambiate anche le “giocate”, quelle che lasciano ammutolito uno stadio intero: non più l’estro individuale, ora è la velocità di uno scambio in area e tempi celeri di reazione. Ciò che rende una giocata incantevole è l’imprevedibilità, la traiettoria addomesticata della palla, che spiazza tutti, giocatori e spettatori.
La televisione ci fa vedere tutto, la partita è un teatro, si recita, si finge, si piange. Questo campionato del mondo ha messo in evidenza i tanti mutamenti sociali e culturali: nella Francia solo 5 calciatori su 23 hanno entrambi i genitori nati in Francia, i belgi di famiglia belga sono la metà. Le identità sono multiple. E quello che dice Tabarez (allenatore Uruguay) è importante. “E’ inutile essere campioni del mondo se poi si scopre che i nostri giovani non sanno dov’è la Russia o perché nella nazionale francese ci sono tanti giocatori nati in Africa. E’ tempo di realizzare quello che i nostri governanti hanno promesso: il 6% del Pil per investimenti nell’istruzione!”.