E’ l’immaginazione che aiuta a resistere. Quella che deride il potere e può a volte salvare.
Louise Jacobson ha 17 anni. Allieva del liceo di Vincennes, è arrestata con altre ragazze dalla polizia di Vichy. Dal campo di Drancy (prima di partire per Auschwitz) scrive: “Mio caro papà, si direbbe che tu dubiti che qui l’attività sia intensa. Ma puoi crederci. Solo ieri ho assistito ad una conferenza su Pasteur. Oltre alle conferenze si organizza un corso di dizione tenuto da un attore. Pare che io abbia talento. Siamo persino in procinto di allestire un lavoro teatrale”. Sono gli internati che organizzano lezioni di matematica, filosofia…
Nel freddo refettorio di un convento sconsacrato del campo di prigionia di Grjazovec con migliaia di prigionieri polacchi, un gruppo di ufficiali nell’inverno 1940-1941 decisero di utilizzare le competenze di alcuni internati per tenere conferenze di argomento storico e letterario, e aiutarsi reciprocamente a superare l’angoscia e a preservare le menti dalla “ruggine dell’inattività”. Jozef Czapski (1896-1993) parlò della pittura e letteratura francese a compagni di prigionia esausti dopo una giornata di lavoro all’aperto, con temperature fino a 45 gradi sottozero. “La gioia di poter condividere uno sforzo intellettuale ci dimostrava come fossimo ancora capaci di pensare e addolciva le ore trascorse nel grande refettorio dell’ex convento, sede di quella strana scuola clandestina in cui riuscivamo a far rivivere dentro di noi un mondo che allora ci sembrava perduto per sempre”. La creatività aiuta a resistere: il maestro Francesco Lotoro di Barletta ha condotto una ricerca straordinaria sulla musica composta nei lager: ha trovato 4.000 partiture (cabaret, canti di lotta e religiosi, perfino un Oratorio laico sul Manifesto del partito comunista ), scritte su pezzi di carta, di stoffa, di iuta…
L’immaginazione non è al potere, ma deride il potere. E’ quello che fa Guido Orefice, il protagonista de “la vita è bella” di Benigni. Stravolge la realtà, non combatte direttamente il fascismo, lo rende ridicolo. Sposa Dora (la principessa) e nasce Giosuè. Padre e figlio per le leggi razziali sono deportati in un lager. Guido oppone il suo sogno all’incubo. Fa credere al figlio che quello cui assistono è solo un grande gioco. Traveste l’orrore perché il figlio non possa smettere di sognare. Si inventa il gioco della sopravvivenza. Tutti recitano e guadagnano punti a nascondersi, si perdono punti se si piange e ci si dispera. Chi arriva a mille punti vince un carro armato! Un padre risparmia così al figlio un trauma che lo avrebbe portato a scoraggiarsi e a perdersi in quell’inferno. Ma c’è altro: riduce la guerra “ai medesimi meccanismi che governano il gioco”. La guerra non è un destino, né una necessità ineluttabile, “ma un’attività umana del tutto razionale, conforme a regole specifiche che possono e debbono essere individuate”. Un gioco, insomma, “che, in quanto tale, si può decidere tutti insieme di cambiare. E soprattutto potremmo decidere di non voler giocare più” (Umberto Curi).
La Memoria non è semplicemente ricordare, ma prendere posizione sugli eventi passati e su casi analoghi del presente. Non è facile saper cogliere oggi i segni che inavvertitamente si insinuano e che modificano la realtà.
In molte classi si ricorda la giornata della memoria, semplicemente ed efficacemente leggendo una lettera, una testimonianza. Invece delle fiabe, nelle “letture ad alta voce” in alcune classi di Manfredonia si è “raccontato” un film uscito in questi giorni: il sacchetto di biglie. Protagonisti due bambini in fuga. Il padre dice a entrambi, prima di farli andare via, soli, sperando che possano salvarsi, che devono mentire, non devono fidarsi di nessuno… e sulla soglia al più piccolo chiede: ”Sei ebreo?”. Quello risponde di sì. E via un ceffone che rimbomba nella stanza. Poi nuovamente la stessa domanda e la stessa risposta. Ancora un ceffone. Il bambino capisce e dice: “Non sono ebreo”.