La poesia e lo stupore che nulla si ripete uguale.

CULTURA

Che cosa accadrebbe se qualcuno si definisse in pubblico “poeta”? Come minimo sarebbe guardato con incredulità, inquietudine… La poesia è circondata nella modernità da un alone di inutilità e di oscurità. Testardamente in Unione sovietica Iosif Brodskij (che poi fu premio Nobel) si definiva poeta e la polizia politica lo inviava nel gulag perché “parassita”. Non c’era un certificato che autorizzasse a servire il popolo come poeta. Anche oggi è più facile definirsi pittore, musicista, artista o, come è di moda, “creativo”. La poesia nasce da una esperienza solitaria e Il poeta si pone e scrive da un punto di vista imprevedibile, distante, estraneo.

Maria Antonietta Cocco (il 17 agosto si presenta il suo ultimo libro di poesie) dice che quando usciva di casa, un foglio di carta e la penna erano le cose che portava sempre con se. E’ misteriosa la cosiddetta ispirazione.  E’ stupore, candore, ingenuità. E’ vedere le cose come fossero la prima volta o come l’ultima. Non c’è nulla che accade due volte alla stessa maniera: non si bagna due volte nella stessa acqua, non si ripete la stessa carezza, non lo stesso bacio, né ci sono due notti uguali e con gli stessi sogni. Questo è ancor più vero per Maria Antonietta che avverte le mani che si tendono e non afferrano, gli occhi confusi, lo sguardo lontano, le parole inconcludenti… e deve imparare sempre e nuovamente il modo di stare nel mondo, apprendere quotidianamente i gesti e i movimenti. Dalla prigione del corpo non nasce il lamento o il grido. Le pareti che la circondano sono lo stimolo a porre domande, cercare il senso delle cose e i muri si aprono e diventano finestre, balconi, verande pieni di odori, suoni, colori. La sofferenza diviene un modo privilegiato e prezioso di guardare il mondo.

E’consapevole e fiera di combattere una grande battaglia “per sopravvivere… per contrastare gli enigmi delle giornate…”. E’ consapevole che “il sipario scendele soste sono molte/ e fallisce il piede che cerca la strada giusta”. Si affaccia lo sconforto, ma è di aiuto una mano stesa, un sorriso sincero, una parola buona. E il pensiero corre al cielo sconfinato, al mare, e l’anima, “migrante nell’Universo”, trova la forza per andare avanti “con ali di gabbiano”.

Poesia del dolore? No. Intensa è la felicità provata nella scrittura, la salvezza ritrovata nel verso, la gioia quando riesce a dire l’indicibile, la cura delle parole… L’altalena non si muove, se lei non vuole, né i gabbiani volano, o le mani si stringono, né le campane suonano. La vita non è solo quella che si svolge dentro di sé e intorno a sé. C’è un ritmo profondo nell’universo, una vita misteriosa nella natura, una pietà per il tempo, i ricordi, le parole. La notte è un tempo propizio e mentre tutti dormono, “mirabili parole” si depositano sui fogli. Un canto alla quotidianità innocente, alle consuetudini rassicuranti. La sinfonia delle cose semplici: la colazione al mattino, il letto della sera, l’affacciarsi alla finestra, le voci, i profumi, la passeggiata nel bosco, la mano che accarezza, la preghiera, i sogni degli amanti, i gesti e le cure delle persone intorno.

Una nuova grammatica dei sentimenti nati dall’esperienza di chi dai margini succhia il senso dell’esistenza, e continua a cercare ancora nuove dimensioni, insoliti tragitti di immaginazione, rinnovate idee di amicizia e di fratellanza. Da questa sua vulnerabilità nasce un invito sottovoce a contare i giorni e a farli contare e a mostrare attenzione, stupore e curiosità sul nuovo che può nascere, insieme.

Un “cominciare-sempre-di-nuovo, conseguibile soltanto al prezzo del finire-sempre-di-nuovo, può raffigurare bene la speranza dell’umanità, la sua salvaguardia dall’affondare nella noia e nella routine, la sua chance di conservare la spontaneità della vita” (H. Jonas).

 

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