All’inferno senza ritorno. Il viaggio di Pompeo.
“Gli ultimi giorni di Pompeo” è un romanzo a fumetti di Andrea Pazienza. Avrebbe compiuto 60 anni qualche giorno fa. A S. Severo (dove ha vissuto fanciullezza e adolescenza) dedicano a lui in questi giorni una mostra. E’ morto a 32 anni, nel 1988. La dipendenza è stata raccontata tante, infinite volte dal cinema, dalla letteratura… ma credo che nessuna opera ne dia un ritratto così vero, come il “Pompeo” di Pazienza. Credo che molti, leggendo queste pagine, se ne siano tenuti lontani, abbiano avvertito un rifiuto profondo. E’ la storia (autobiografica) di un giovane che si alza la mattina, con gli occhi e la bocca impastati, nausea e senso di vomito e la voglia di “uno schizzo in vena”; e gira, si muove nella città per cercare la bustina, la dose di eroina, per iniettarsela o tirarla con il naso. E’ una discesa nell’Inferno, l’analisi di una esistenza, condotta senza giustificazioni e lamenti, senza pietà verso di sé e verso il mondo intorno. Un urlo. Di disperazione. Di ricerca di senso.
Il mondo intorno a sé è quello dell’Italia tra la tra fine degli anni settanta e gli anni Ottanta. La morte di Pasolini, le radio libere, gli indiani metropolitani, la P2, la lotta armata, gli studenti che vanno a sparare e quelli che vanno a ballare. E chi non accetta questa scelta, trova l’eroina. Spietato è il racconto di Nerva che “disperatamente cerca uno straccio di vena e fruga, fruga… “. Pompeo pensa: “Vivo sulla lama, mi com/muovo nei bassifondi… brigo, mi procuro e dilapido milioni, poi rischio, mi struggo, mi umilio, mi arrendo, poi mi faccio… L’alternativa è la birreria, il lavoro, il risparmio, il normale sfaldarsi del corpo, due più due fa quattro, le cene d’affari”. Là un mondo di disperati, quà un mondo di finti felici.
Pompeo rifiuta l’omologazione di un mondo senza sogni. Ma tra disegni cupi e aspri e parole dure, in una città plumbea, più volte gli occhi si aprono, si alzano e vedono “un cielo così bianco” e immagini di improvvisa bellezza, di donne e bambini che hanno negli occhi il sole, la curiosità. Immagini fugaci che si perdono e sfumano.
La telefonata con la madre è un addio.
“Oh, è tutto il giorno che chiamo, ora mi sono detta, fammi riprovare, tutt’al più dormirà. Tesoro, la mamma ti pensa sempre, papà non è stato bene in questi giorni, ora lunedì lo porto a fare una visita a Bari… Ma che c’è, ti sento… dillo alla mamma… pronto?… Il diciotto si sposa Barbara, mi raccomando. Ti sto facendo un maglione bellissimo, vedrai… Che hai, la mamma ti sente… così distante… Vieni giù, ti riposi, vai a San Menaio”
“Non posso mà, devo finire una cosa. Mamma mia”.
“Dì alla mamma cos’è successo”.
“Mamma! Mamma mia! Dai un bacione a papà, a Pizza Pozza, a…”
“Sì, sì… Ma cosa c’è, perché piangi?”.
“Mamma io… ti voglio tanto bene, tanto… Ricordatelo sempre… capito mà. Hai capito, mà? Ti voglio bene”.
Il romanzo si chiude con una lettera, una postilla a “Gli ultimi giorni di Pompeo”. Pazienza dice: “si chiude un lungo capitolo della mia vita, iniziato ‘fumettisticamente’ nel 1977. Ho scoperto che non sono un genio. Sono un fesso qualsiasi. Sono passati 9 anni. Volati. Ora vivo in campagna”. Era un genio con “un immenso talento”. Tutti pensavano che Pazienza ce l’avesse fatta e invece… Lui, come tanti, non ce l’ha fatta.
Sono gli anni in cui finiscono i sogni. L’Italia ha smesso di sognare un mattino del maggio del 1978. “Un paese in cui sono successe troppe cose. Ma è come se niente fosse successo”. Gli anni Ottanta sono quelli della ostentazione della ricchezza, delle baby pensioni, dei favori alle categorie privilegiate, del debito pubblico che cresce (tanto pagheranno gli altri!), delle raccomandazioni legittimate, dell’evasione fiscale, della corruzione, del grido negli stadi: Forza Etna!… Anni che durano.